La Cucina

Utensili da cucina

Prima dell’invenzione di pentolame in argilla, probabilmente si scavavano buche nel terreno, le si rivestiva di argilla impermeabile per poi riempirle di acqua, portata ad ebollizione dalle pietre arroventate sul fuoco vivo che vi si gettavano dentro. In età arcaica, la preparazione e la cottura dei cibi doveva avvenire all’aperto, all’esterno dell’abitazione. I focolari rinvenuti all’interno della casa erano infatti, con ogni probabilità, utilizzati per l’illuminazione e il riscaldamento: il fumo doveva uscire dalle finestre o dalla porta (nelle abitazioni con tetto fatto di tegole si spostava una tegola lateralmente per permettere la fuoriuscita del fumo) dal momento che i resti archeologici portano ad escludere l’esistenza di camini.

Ad Acquarossa (VT) sono stati trovati dei focolari scavati nel tufo. Più che di focolari, sembra si tratti di fosse per arrostire adibite all’accensione del fuoco e al deposito dei carboni ardenti destinati alla cottura. A partire dall’Età del Bronzo, l’arrostitura della carne (connessa al sacrificio animale e probabilmente eseguita dagli uomini) si avvalse dell’utilizzo di spiedi e alari di bronzo e ferro. Alla stregua di lingotti d’oro, spiedi e alari in bronzo e ferro (materiali preziosi per la loro robustezza e per la complessità dei processi di produzione) costituivano una sorta di status symbol e avevano valore monetario, permettendo la conservazione e l’accumulo di ricchezza.

Per cuocere sul fuoco aperto gli Etruschi di quell’epoca disponevano anche di fornelli in materiale meno pregiato. Simili ai fornelli erano i bracieri, sorta di bacinelle più o meno grandi (più o meno “portatili”) dove si raccoglievano le braci ancora ardenti lasciate dal fuoco vivo. Questi bracieri servivano sia per il riscaldamento che per la cottura alla brace. Sotto la brace potevano essere cotti cibi con “involucro” naturale, come uova o tuberi con buccia, ma anche cibi privi di rivestimento esterno, in quest’ultimo caso l’alimento poteva essere  avvolto in stoffe oppure in foglie di piante commestibili o addirittura rivestito da uno strato di argilla (a fine cottura l’argilla veniva spaccata per consumare il cibo cotto al suo interno).

Importante la scelta dalla legna da ardere: essenze non tossiche e dal sapore gradevole. I legni duri furono già all’epoca considerati tra i migliori. A differenza dei bracieri, i fornelli erano destinati solamente ad uso culinario e servivano per ospitare il fuoco al loro interno (funzione di focolare) e per sorreggere la pentola posta sopra ad essi (funzione di sostegno della pentola). Questi fornelli, spesso portatili, avevano un’apertura, più o meno ampia a seconda dei modelli, adibita al carico della legna da ardere.

A seconda del modello, la pentola era sostenuta in modi diversi: in alcuni casi risultava semplicemente adagiata e incastrata sul bordo esterno del focolare (in questo caso il fondo della pentola si trovava a contatto diretto con la fiamma), in altri tra pentola e fiamma si interponeva un elemento che fungeva sia da copertura del focolare, sia da base d’appoggio per la pentola, tale elemento era in genere bucherellato per velocizzare la cottura.

A Poggio Civitate (Si) è stato trovato anche un altro genere di oggetti con probabile funzione culinaria:  si tratta di coperchi a forma di campana con un’ansa alla loro sommità (maniglia). La loro forma è la stessa delle cosiddette cooking bells ritrovate, ad esempio, presso l’agorà di Atene.

Le cooking bells, poste sopra piastre di pietra serena appoggiata su fuoco o brace, erano in grado di ricreare al loro interno condizioni di temperatura simili a quelle di un forno. I cibi potevano essere adagiati sulla piastra di base sotto la campana, oppure, nel caso delle focacce basse ad esempio, potevano essere disposti sulla superficie esterna della campana o attaccati sul lato convesso interno dal quale si sarebbero poi staccati a metà cottura per terminarla sulla piastra del fondo. È la cottura generalmente definita “sotto coppo” chiamata dai Romani “sub testo”: la campana o coppo poteva anche essere circondata e quasi totalmente sommersa da braci ardenti.

Ad Acquarossa sono stati trovati anche dei veri e propri forni, a pianta rettangolare o semicircolare, con un’apertura sul davanti e uno sfiatatoio alla sommità della volta. La conformazione di questa tipologia di forno era da tempo nota nel Vicino Oriente. Dopo aver introdotto il combustibile e riscaldato bene vano e pareti interne del forno, la brace veniva rimossa per sostituirla con il cibo da cuocere, esattamente come nei nostri forni a legna. L’ampiezza di questi forni è di circa 100cm x 55cm e sono collocati, generalmente, sotto tettoie lungo il muro esterno delle abitazioni.

Nelle famiglie benestanti il lavoro in cucina era affidato a schiavi o servitori, guidati da una donna. L’impiego della servitù è confermato dalle due scene di cucina raffigurate nella tomba Golini 1 di Orvieto e anche dalla decorazione di una piccola cista conservata a Bruxelles (si tratta in entrambi i casi di opere datate al IV secolo a.C.).

A differenza di alari e spiedi, i più semplici strumenti di cucina non furono deposti nei corredi tombali, la loro documentazione è scarsa, ma possiamo supporre che fossero costituiti da  materiali deperibili come legno, tessuti, paglia. Nella parte sinistra del fregio della tomba Golini 1 vediamo quali fossero gli animali e le parti di essi destinate alla consumazione durante il banchetto: il tronco di un bue, appeso con uncini a un robusto trave di legno; la testa del bue con gli occhi ancora aperti, probabilmente destinata ad essere appesa da qualche parte con valenza simbolica e sacrale; appesa a un trave più leggero, la cacciagione, costituita da un capriolo, una lepre e quattro uccelli. Un servo, con una scure alla mano, ha il compito di spezzare ulteriormente la carne.

Oltre all’arrostitura, la carne, fatta a pezzi, poteva essere bollita in calderoni bronzei sostenuti da treppiedi posti sopra il fuoco (spesso bollita insieme a tuberi, legumi, cereali e verdure). Ne offrono testimonianza le raffigurazioni di età arcaica che si trovano sulla spalla dell’Idria Ricci.Le scene raffigurate sull’Idria Ricci si svolgono all’aperto, ma dobbiamo presumere che la preparazione dei cibi avvenisse anche nell’ambito della casa dove, come a Pompei, quasi sempre nella parte servile dell’abitazione, doveva trovarsi un piccolo ambiente adibito alla cucina. Tale ambiente era senza dubbio caratterizzato da facile approvvigionamento d’acqua e dalla presenza di un focolare fisso. I focolari fissi erano banchi in muratura di media altezza dotati di fornelli/bracieri incorporati nella struttura in muratura del banco stesso. Simili per struttura a dei lavabi, al posto dell’acqua ospitavano fuoco vivo o brace. Sopra fuoco e brace erano poste le griglie o le pentole sorrette da tripodi di ferro.

Che le case ricche del IV secolo a.C. disponessero di un grande forno-fornello fisso è dimostrato dalle pitture della tomba Golini 1 di Orvieto dove, sulla parete di fondo del reparto sinistro della camera, è raffigurato un oggetto parallelepipedo, alto più della metà di un uomo, con un’apertura rettangolare in basso dalla quale si vedono uscire le fiamme (decorato da raffigurazioni apotropaiche di falli). Questi fornelli, una volta spentosi il fuoco, potevano essere utilizzati come forni inserendo i cibi da cuocere nel vano in basso al posto di fuoco e brace. Dietro il forno-fornello è raffigurato un servo: ha in mano un grande mestolo di bronzo con manico di legno per non scottarsi.

Abbiamo testimonianza anche di padelle di bronzo, utilizzate per friggere. Da quanto detto si evince come gli Etruschi praticassero tutti i tipi di cottura: la cottura lenta e lunga, ovvero quella di bolliti e stufati, veniva fatta su fornelli alti che garantissero una maggiore distanza dalla fonte di calore e allungassero così i tempi di cottura; quella più rapida invece si svolgeva su fornelli bassi vicini alla fonte di calore; erano poi praticate la tostatura, la cottura allo spiedo, alla griglia, nonché la cottura  a decrescita di calore per pane e focacce (in forno o sub testo), quella sotto la cenere incandescente e, più raramente, anche la frittura.

Un utensile molto importante era il mortaio, un recipiente non troppo profondo, di pietra o di terracotta (forse anche di legno) spesso munito di becco, dove avveniva l’impastatura del pane o la preparazione di pesti, triti e salsine. Sempre sulla parete sinistra della tomba Golini 1 troviamo raffigurato un mortaio su treppiedi e un servo che, con l’aiuto di due pestelli, sta tritando e mescolando qualcosa, mentre un suonatore di doppio flautoaccompagna con la   musica il suo lavoro.

In effetti, lo stesso Aristotele racconta che gli Etruschi erano tanto amanti della musica da accompagnare con il suono dei flauti perfino l’impastatura del pane. Il mortaio era adibito all’impastatura e alla preparazione delle salse,  non serviva invece per la riduzione in farina dei chicchi di cereali, per questa operazione esistevano apposite  macine in pietra: prima dell’invenzione del molino rotante (avvenuta probabilmente verso il 200 a.C.) si usava una lastra di pietra ruvida come base e, sopra tale lastra, si macinavano i chicchi rotolandovi sopra, manualmente, una pietra tondeggiante o cilindrica, anch’essa ruvida. Vari tipi di setacci, per lo più fatti di crine di cavallo, consentivano di ottenere tre tipi di farina: la grossa, la media e il fiore.

L’apparecchiatura dei tavoli avveniva in cucina: era usanza etrusca quella di portare nella sala del banchetto le tavole già apparecchiate. Una cucina completa disponeva certamente di molti altri utensili, come recipienti per l’acqua e contenitori per generi alimentari, pentole, scodelle e piatti, attingitoi, mestoli, vassoi (tipo quello che utilizziamo ancora oggi per la polenta).

Un particolare utensile di cui ci è giunta testimonianza è la grattugia di bronzo, ritrovata nei corredi tombali e quindi associata, al di là del suo utilizzo in cucina, al banchetto e al consumo rituale di vino. Probabilmente gli Etruschi bevevano qualcosa di simile al kykeon greco, un aperitivo di vino forte con l’aggiunta di orzo, miele e, appunto, formaggio grattugiato. Per il vino, larghi bacini di bronzo con cratere centrale erano usati sia per decantarlo che per rinfrescarlo grazie al contatto con l’acqua fredda nella parte della bacinella intorno al cratere al centro, riempito di vino. Si utilizzavano brocche per l’acqua per la diluizione del vino, strumenti per il filtraggio (colini) del vino e attingitoi. Vi è testimonianza anche di tortiere.

Alimenti, Preparazioni e Combinazioni alimentari

Cereali, legumi, semi, farine e derivati:

Piadina e polenta sono tra le ricette più antiche. La piadina, come semplice impasto di farina e acqua, simile a una schiacciata o a un pane azzimo, era un classico cibo da viaggio ricco di amidi e di grande valore energetico, poteva essere cotta su pietre piatte arroventate o direttamente sopra o sotto la brace, avvolta in foglie o teli umidi.

La polenta (o farinata), impasto di acqua e farina (o miscela di tipi diversi di farina, non solo quella di cereali, ma anche di legumi o addirittura di ghiande, tuberi e corteccia di albero), fatto lungamente bollire in pentola rimestando in continuazione (a cui aggiungere eventualmente altri alimenti quali verdure, foglie, pezzetti di carne o pesce), è l’unica pietanza comune a tutte le culture e presente in tutte le stagioni. Si tratta però di una preparazione abbastanza complessa e  ricca in quanto necessita di un buon livello tecnologico (servono macine per la produzione delle farine e pentole per la bollitura), di manodopera e buona organizzazione (la manodopera serve sia per la macinazione dei chicchi sia per la raccolta del combustibile e dell’acqua), di tempo, combustibile e acqua (la bollitura è una cottura lenta che richiede molto combustibile e acqua).

La polenta, in Etruria come a Roma e nel resto della penisola italica, si preparava sempre allo stesso modo, versando la semola nel latte o nell’acqua bollente salata e mescolando fino ad ottenere, dopo circa un’ora, una densa pasta da mangiare col cucchiaio. Il condimento o il contorno rendevano varia questa pietanza tanto comune e quotidiana: legumi oppure formaggio, ma anche olive, verdure cotte, tuberi, erbe aromatiche, acciughe e altri pesci conservati oppure pezzetti di carne. La polenta era dunque un miscuglio eterogeneo, sempre diverso, a seconda dell’offerta stagionale e delle risorse del territorio; i latini chiamavano tale miscuglio “satura”, da qui addirittura il termine satyra per indicare un componimento poetico eterogeneo “condito” di battute e invettive.

Qualsiasi cosa potesse essere ridotta in farina poteva costituire la base per una polenta: anche i semi oleosi del lino, spesso usati insieme alla farina d’orzo, e forse anche quelli della canapa, certamente usati in Grecia per insaporire le minestre, come riportato da Dioscoride e  Columella (Galeno parla invece di un dessert a base di semi di canapa tostata). Fra i contadini e i montanari alla penuria di cereali si rispondeva tostando faggiole, ghiande dolci (ballotte) e più tardi castagne. Con la farina di questi frutti farinosi, e l’aggiunta di piccole dosi di farina di qualche cereale minore, si potevano preparare non solo polente e piadine, ma anche veri e propri pani.

Molto usato doveva essere il metodo della germogliazione di grani, legumi e semi di ogni tipo che permetteva agli antichi di rivitalizzare e ammorbidire i chicchi di cereali, leguminose e piante in modo da poterli consumare anche crudi in insalata. I chicchi di qualunque cereale, crudi o tostati, freschi o seccati, si masticavano per passatempo o per sana nutrientissima abitudine.

Il pane lievitato si impone prima in Etruria che nel resto della penisola italica, visti i contatti degli Etruschi con il Vicino Oriente (attraverso, ad esempio, la mediazione dei Fenici in contatto a loro volta con gli Egiziani ai quali dobbiamo l’invenzione della tecnica del pane lievitato) ed ha la caratteristica di non contenere sale (nell’intera Toscana, nel Viterbese e nell’intera Umbria resta fino ad oggi l’uso del pane insipido).

Grazie alla testimonianza di Plinio sappiamo che il lievito si otteneva immergendo il miglio nel vino non fermentato, oppure immergendo nel vino bianco la parte più sottile del grano o ancora lasciando inacidire in acqua una pallina di pane semicrudo impastato a mosto. Il pane era spesso arricchito con semi e accompagnato principalmente da formaggio (spesso alle erbe). Il pane poteva essere anche impastato con aggiunta di latte, di olio, di strutto, di miele, pezzetti di frutta secca o disidrata ed erbe aromatiche.

Solo tra il II e il I sec. A.C si comincia, in Italia, a coltivare il sesamo,utilizzato per insaporire pane e dolci. Comune, invece, fin dai tempi arcaici, il seme di papavero che già cresceva nell’orto di Tarquinio il Superbo e che, secondo Livio, si spargeva anch’esso sul pane e sui dolci oppure si gustava tostato e impastato con miele sotto forma di dolcetti da consumare a fine pasto. Con i semi di papavero e il miele si preparava anche una bevanda sedativa bevuta prima di andare a letto.

Carne, pesce, uova, latte e derivati:

In generale gli animali si macellavano raggiunta la vecchiaia, da qui l’uso di bollire la carne per ammorbidirla (dal momento che la carne degli animali vecchi è fibrosa e dura). Le carni erano in generale piuttosto dure, non solo quelle della selvaggina, ma anche quelle degli animali da cortile allevati per la carne, ovvero anatre, piccioni domestici e tacchini ruspanti e muscolosi.

Le galline ovaiole non venivano mangiate prima dei tre anni (anche in questo caso la carne doveva  risultare piuttosto dura).

La cucina antica prediligeva il cibo cremoso, probabilmente perché tutto era duro e fibroso, dalla carne agli ortaggi. Gli alimenti venivano tagliuzzati, pestati, ammorbiditi, impastati

Il bollito assumeva spesso la forma di uno spezzatino a pezzi molto piccoli, quasi un ragù (“minutal”). La carne non era la sola cosa ad essere gradita spezzettata: la pasta stessa si presentava sotto forma di “briciole” (simili alla “fregola” sarda o ai “manfrigoli” romagnoli) oppure sotto forma  di frammenti di tagliolini secchi rotti (quella che a Roma si chiamava “tracta”). La pasta così fatta doveva essere consumata all’interno di zuppe e minestre, insieme a verdure, cereali in chicco e legumi.

Il piccolo ghiro era così ricercato che lo si ingrassava in speciali orcioli di terracotta (muniti all’interno di passerelle disposte a chiocciola), nutrendolo di ghiande, noci e castagne.

Presso i Romani, e probabilmente anche tra gli Etruschi, le chiocciole erano oggetto di pietanze popolari. Le chiocciole venivano ingrassate con vincotto e farina in speciali scatole, le “cochlearia”, e prima di cucinarle (fritte, arrostite o cotte al tegame) erano lasciate per più giorni a spurgare nel latte. Si mangiavano anche certi vermi della rovere, forse larve di un insetto parassita della quercia, anch’esse ingrassate con la farina.

Del maiale gli Etruschi utilizzano tutto e già erano noti salumi stagionati, salami, salsicce (comprese quelle di sangue rappreso, dolci o salate).

Il pesce si consumava generalmente arrosto, aromatizzato con erbe e, diversamente da oggi, condito con abbondante aggiunta di formaggio, oppure bollito (talvolta in succo di melagrana), irrorato di olio e aceto e accompagnato da salse di vario genere. I pesci, messi sotto sale o in salamoia, erano conservati in orci o in grandi giare. Molto popolare  quello che i Romani chiamavano “alec” (o “alex”) ovvero i resti della polpa di pesce rimasta attaccata sul fondo e sulla parete delle botti dove si preparava il “garum”.

Non abbiamo testimonianze circa la preparazione del burro, si ipotizza non fosse prodotto perché di difficile conservazione. Il latte bevuto comunemente doveva essere soprattutto quello di capra (dal gusto più delicato rispetto a quello di pecora) poiché le razze vaccine dell’epoca non erano “da latte” ma utilizzate per i lavori agricoli. A questo proposito Columella riferisce addirittura la necessità, presso le popolazioni dell’Italia centrale, di vacche venete d’importazione da destinare all’allattamento dei vitelli.

Plinio ci rivela che il latte si aromatizzava lasciandovi in macerazione rametti, pestati al mortaio, di crescione di terra oppure di ligustico (o sedano di montagna). Al posto del burro si utilizzava lo strutto (grasso del maiale), la sugna (grasso viscerale del maiale), il sego (grasso della mucca) e l’olio.

Tranne il burro, sembra fossero noti tutti gli altri prodotti derivati dal latte, con qualche dubbio solo per  il vero e  proprio yogurt fermentato, mentre sicuramente si consumava latte cagliato per mezzo di aceto (a Roma la “melca”, ovvero il latte cagliato con l’aceto, si aromatizzava con salvia, cipolla e porro).

Il formaggio si faceva soprattutto con il latte di pecora: il caglio utilizzato era di origine vegetale (fiori gialli del Galium, lattice di fico, fiori del cardo, semi di croco, etc.) o animale (ventrigli essiccati di vitelli, agnelli, capretti, cerbiatti, leprotti: al massimo un’oliva di caglio per 6,5 l di latte). I formaggi dovevano essere per lo più crudi, lasciati scolare in fiscelle di giunco, poi salati e infine messi a maturare in ambiente fresco, avvolti in foglie di serpentaria o di fico.

La cagliata, aromatizzata con timo, santoreggia, ecc., poteva forse essere gettata in acqua bollente, manipolata e infine affumicata al fumo di rami di melo o stoppie (con un risultato simile all’odierna scamorza). Il formaggio si utilizzava spessissimo per la preparazione di torte rustiche e di dolci, anche per il fatto che si comporta come un fermento lievitante. Molto comuni sono i dolci a base di farina, formaggio e miele. Spesso questi dolci sono cotti su foglie di alloro o mirto e cosparsi di miele, semi di papavero (e più tardi sesamo) prima di essere portati in tavola.

Le uova si consumavano bollite e in frittata, oppure rientravano nella composizione di “soufflé” e “crespelle”: famosa la “tyropatina” ovvero la “patina” (termine con il quale i Romani indicavano una sorta di soufflé) alla maniera dei Tirreni (gli Etruschi). Comune anche la “patina” di pere, mele, sorbe o sambuco. La patina etrusca, ovvero la Tyropatina, si preparava sciogliendo del miele nel latte per poi aggiungere uova continuando a mescolare fino ad ottenere un composto omogeneo da versare in un tegame per la cottura a bagnomaria.

Frutta fresca, frutta secca e fiori:

La patina di pere o sorbe così come quella di sambuco si realizzava miscelando la purea di tali frutti con poco latte e uova fino ad ottenere un composto omogeneo da versare in tegame per procedere alla cottura a bagnomaria. Prevista l’aggiunta di una spolverata di pepe a termine cottura. Molto utilizzate dovevano essere le sorbe, la cui purea acidula ricorda il concentrato di pomodoro (ortaggio di origine americana, all’epoca sconosciuto).

Esistevano tante varietà di uva, fichi, mele, pere, prugne, c’erano anche le ciliegie (del tipo “Prunus avium”), la melagrana, le corniole, il sambuco. Dal commercio con l’oriente giungevano i datteri secchi e lo sciroppo di datteri.

Gli Etruschi dovevano conoscere anche la carruba, la mandorla (chiamata inizialmente “noce greca”) e il pistacchio, piante provenienti dal Medio Oriente e dalla Grecia, ma presto coltivate anche nel Sud Italia, nella Magna Grecia, soprattutto in Sicilia. Le noci, i pinoli, ma soprattutto le nocciole, erano invece raccolte senza dubbio in territorio etrusco. Lo zafferano, falsificato già allora con il cartamo, donava un intenso color giallo ai pesci e al vino. I petali di rosa si usavano in piatti da parata, ma anche in confetture aromatiche all’orientale. Come ornamento per le insalate, tra gli altri, il fiore di malva.

Erbe aromatiche e spezie:

Se il gusto contemporaneo tende a privilegiare sapori e aromi precisi, quasi puri, nella cucina antica prevalevano bouquets di almeno cinque o sei sapori abilmente mescolati, un po’ come avviene per il curry. La cucina dell’antichità doveva svilupparsi sulla base di accostamenti e contrasti, sovrapposizioni, sapori finissimi e complessi dotati di numerosi e ampi retrogusti.

In Italia erano disponibili allo stato spontaneo o facilmente coltivabili: alloro, mirto, ginepro, timo, serpillo, origano, rosmarino, salvia, santoreggia, svariati tipi di menta, nipitella, maggiorana, fieno greco (usato, almeno a Roma, per condire il mosto), levistico, ligustro, macerone, finocchio selvatico, erba ruta, pimpinella, carvi, prezzemolo, senape selvatica, senape bianca, coriandolo, aneto…

Non c’era il peperoncino, ma il sapore piccante poteva essere garantito dal rafano o dai semi bianchi e neri della senape che, tritati e messi a macerare nell’aceto, erano impiegati per la preparazione di salsine piccanti adatte ad accompagnare carni bollite, ma anche conserve di ortaggi. Il pepe nell’antichità era soprattutto utilizzato nei dolci.

Dall’India arrivavano a dorso di cammello, con smistamento a Samarcanda: zenzero, nardo, ‘costo’ (forse il Costus arabicus L.), cannella, chiodi di garofano e noce moscata. La cannella e i chiodi di garofano erano conosciuti per le loro proprietà terapeutiche ma non erano utilizzati in cucina (come del resto la radice di liquirizia).

Una spezia misteriosa è il laser, detto anche silfio. Resina dall’odore forte e persistente, prodotta da una ferula della Cirenaica molto rara e costosa, il silfio scomparve ai tempi di Nerone e fu poi sostituito da una ferula di Persia, l’assafetida (per gli indiani “hing”). L’assafetida va usata a decimi di grammo per volta, grattandola con una lametta. Se usata in eccesso l’assafetida può conferire alle pietanze un aroma disgustoso di putrido.

Il levistico o ligustico oggi è stato soppiantato dal sedano e non è più coltivato, lo si può comunque trovare nei terreni incolti. Altra ombrellifera ormai dimenticata è il macerone, affine al ligustico, dal sapore di sedano amaro.

Garum, aceto e salse derivate:

La più famosa salsa della cucina etrusca e romana è senza dubbio il “garum” che nasce nel V secolo a.C. in Grecia: si prepara con strati alternati di erbe aromatiche (come aneto, santoreggia, ruta, menta, ecc.) e pesci (sardine, anguille, sgombri, etc.), con molto sale. Il sale e gli oli aromatici delle erbe impediscono in realtà qualunque processo putrefattivo, la salsa ottenuta risulta così costituita da un autolisato proteico, ovvero da proteine scisse in amminoacidi semplici, facilmente assimilabili. Al di là della cattiva fama di cui gode ai nostri giorni, sembra invece che il garum sia stato una salsa digestiva sana e ricca di vitamina A, simile al “nuoc mam” vietnamita o alla colatura di alici.

Molto salato, di color bruno chiaro, con un gusto aromatico tra l’origano e l’acciuga, il garum si conservava indefinitamente ed era adatto a condire qualsiasi pietanza, dolci compresi (l’equivalente del nostro pizzico di sale nei dolci). Il garum era comunque utilizzato con il contagocce, essendo tra l’altro molto costoso. Chi non poteva permetterselo lo sostituiva con sale e origano.

A partire dal garum si ottenevano varie salsine:

  • Oxygarum: garum+ aceto + spezie ed erbe aromatiche
    • Oenogarum: garum + vino (anche dolce) + spezie ed erbe aromatiche
    • Hydrogarum: garum + acqua + pepe e levistico (utilizzato per cuocere le polpette)
    • Eleogarum: garum + olio + poco aceto + spezie ed erbe aromatiche (utilizzato soprattutto per condire le insalate)

Anche l’aceto costituiva la base per varie salse. Oltre all’oxygarum già menzionato:

  • Oxymeli: aceto + miele + acqua e sale (buona per le conserve di ortaggi)
    • Oxyporium: aceto + spezie + erbe aromatiche (molto spesso menta)
    • Agresto: aceto + mosto d’uva + spezie

Dove mancava la vigna, i contadini probabilmente preparavano l’aceto a partire da frutti come fichi, mele e pere. Dall’unione dell’oxyporium e di una speciale variante di oxygarum condita con erbe aromatiche, pepe, zenzero, miele e datteri si ricavava una salsa praticamente uguale alla worcestershire sauce.

I dolcificanti:

Il gusto diffuso per il dolce, al di là dell’impiego nei  “dessert”, ovvero la tendenza  all’aggiunta di sostanze dolcificanti come miele, vincotto, vino passito, uvetta e datteri in vari tipi di pietanza, si deve forse al tentativo di mascherare la forte sapidità e acidità delle conserve usate in cucina.

Come dolcificanti abbiamo: miele (il dolcificante più costoso), sciroppo d’uva e di fichi, vincotto, sapa, vino passito, melomeli (miele dove venivano conservate le mele cotogne, di cui ha preso l’aroma), fichi secchi, prugne secche, uvetta, datteri e “miele fenicio” (sciroppo denso di datteri, decisamente più economico del miele).

Il pane poteva essere dolcificato con l’uvetta, con i fichi e con il mosto (ricetta simile ai moderni  mostaccioli).

Le bevande:

Il miele si usava per fare bevande come:

  • Idromele (bevanda alcolica prodotta dalla fermentazione del miele)
    • Mulsum (vino e miele)
    • Oxymeli (aceto e miele)

La posca era una miscela di acqua e aceto molto dissetante, capace di purificare l’acqua perché l’aceto è antisettico. La melca era una bevanda densa realizzata unendo aceto al latte e facendolo cagliare. Vino e latte erano talvolta mescolati.

Diffusi i decotti di latte ed erbe (probabilmente simili al decotto di latte intero di capra e rosmarino consigliato da Galeno: un pugno di foglie di rosmarino tritate da aggiungere a mezzo litro di latte portato poi ad ebollizione, lasciato a bollire per cinque minuti e poi filtrato). Molto interessanti anche per le proprietà curative di certi tipi di enoliti, oleoliti e macerati in aceto. Molto diffuso l’aperitivo con vino e fiori.

Metodi di Conservazione

Di fronte a beni molto deperibili come i vegetali si doveva ricorreva al sistema della conserva in salamoia o aceto, in aceto e miele, oppure in olio. Anche l’essiccazione era praticata: le erbe, i bottoni floreali, le verdure a stelo e a foglie erano fatti seccare all’ombra, poi riposti in vasi di coccio e irrorati con una speciale miscela conservante fatta di due terzi di aceto e un terzo di salamoia satura alla quale si aggiungevano infine erbe aromatiche come finocchio, aneto, ruta, salvia e porro.

Le radici erano conservate in buche sottoterra, ricoperte di paglia, sabbia o segatura oppure sott’aceto. L’aglio si conservava nella paglia o appeso, la cipolla sott’ aceto, i funghi essiccati, i tartufi lasciati nella segatura in vasi chiusi, le olive in salamoia o acqua di mare o in mosto cotto aromatizzato con mirto, alloro, finocchio e lentisco.

Le bacche e i frutti raccolti in estate e in autunno si facevano seccare su foglie di platano o paglia. I più adatti ad essere essiccati erano fichi, uva, prugne, ciliegie, corniole, carrube. Con le cotogne e le more si potevano fare composte, aggiungendo miele ai frutti ridotti in purea e portati ad ebollizione. Le cotogne scottate si conservavano nel mosto cotto (come per la cotognata e la mostarda). Se colti dall’albero il più tardi possibile, i frutti di melo, pero, melograno, pruno e cedro potevano conservarsi per molti mesi una volta riposti in orci, spalmati internamente di pece, e chiusi con tappi di argilla, cera o gesso. Tra il tappo e la frutta poteva inserirsi, per migliorarne la conservazione, uno strato di paglia o sabbia. Tali orci pieni di frutta, paglia e sabbia potevano infine essere addirittura interrati. Per migliorare la conservazione dei frutti talvolta li si cospargeva di olio o li si rivestiva di argilla, gesso o cera. I frutti potevano essere conservati anche in acqua di mare o salamoia.

Per quanto riguarda la conservazione della carne, se doveva essere conservata solo per qualche giorno la si teneva semplicemente al freddo nelle cantine o, d’inverno, sotto la neve dopo averla ben pulita, irrorata di aceto e cosparsa di semi di coriandolo macinato e cumino; per la conservazione su lunghi periodi si faceva seccare all’aria, dopo averla tagliata a fette oppure si conservava salata nella vinaccia. Metodo costoso ma efficace era quello che prevedeva la spennellatura con miele (che in effetti ha rinomate proprietà antisettiche e conservanti).

I formaggi erano conservati avvolti in panni imbevuti di acqua salata e aceto. Anche le correnti d’aria e i venti potevano essere utilizzati per la conservazione dei cibi. Le castagne erano lasciate chiuse nei ricci, ammassate in cumuli sopra una piattaforma di terra battuta e ricoperti di foglie, felci e altri materiali vegetali periodicamente inumiditi. Il metodo più adoperato per la loro conservazione era comunque l’essiccamento e la trasformazione in farina.

Altro metodo era quello della “curatura”, un tempo chiamata “novena” perché durava nove giorni: la pratica consisteva nell’immergere le castagne in acqua, a temperatura ambiente, per un periodo che variava dai 4 ai 10 giorni. A causa della mancanza di ossigeno in immersione, i batteri presenti nei frutti venivano eliminati e si sviluppavano così microrganismi che favorivano una leggera fermentazione.

Le bacche di mirto erano utilizzate nelle conserve di olive e carne, le bacche di ginepro per le salse e le marinate, mentre le piccole dure pere selvatiche, gli astringenti prugnoli e le piccole bacche di lentisco e terebinto erano conservate in giare insieme alle olive.

Cosa non c’era ancora

Albicocca, Ananas, Anacardio, Arachide, Arancia, Avocado, Banana, Burro, Cacao, Caffè, Carciofo, Cocco, Cocomero grande americano, Fagiolo (se non quello dall’occhio), Kaki, Kiwi, Liquirizia, Mais, Mango, Nespola, Limone, Mandarino, Melanzana, Papaya, Patata, Peperoncino, Peperone, Pesca, Pomodoro, Pompelmo, Riso, Tè, Vaniglia, Zucca cucurbita, Zucchero.

RIFERIMENTI BIBLIOGRAFICI
SALSA PRINA RICOTTI, E.,1999
“Le ricette più antiche del mondo” in Archeo Monografie, VIII, n.1, febbraio 1999
VALERIO, N., 1989
La tavola degli antichi, Milano 1989.
VITERBO, 1987
AA.VV., L’alimentazione nel mondo antico. Gli Etruschi, catalogo della mostra, Roma 1987.