Specie vegetali dell’Etruria antica

Le colture degli Etruschi

ELENCO DELLE SPECIE VEGETALI PRESENTI NELL’ETRURIA ANTICA E POTENZIALMENTE IN USO PRESSO GLI ETRUSCHI, ATTESTATE CON CERTEZZA

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A

Achillea
Nome scientifico: Achillea millefolium

Usi medicinali: Una pratica assai frequente, nelle campagne toscane, è quella di utilizzare le foglie fresche e contuse applicate localmente sulle ferite, a scopo emostatico e cicatrizzante. Un uso particolarmente interessante è quello emerso nel Senese, dove l’infuso delle sommità fiorite, unite a quelle di biancospino (Crataegus monogyna Jacq. ), a foglie di olivo (Olea europaea L.), vischio (Viscum album L.), borsa del pastore (Capsella bursa-pastoris (L.) Medicus) e ortica (Urtica sp. pl.), viene bevuto per abbassare la pressione sanguigna. Altro impiego originale si ritrova in Versilia (Lucca), dove l’infuso delle foglie viene assunto oralmente come calmante nelle sindromi nervose; lo stesso preparato in Garfagnana (Lucca) e nel Senese è considerato un ottimo digestivo, nel Grossetano trova impiego come valido vasotonico, mentre in Lunigiana (Massa) si usa come antinfiammatorio sistemico.

Altri usi: In alcune località del Monte Amiata (Grosseto) l’infuso delle infiorescenze viene usato come detergente per la pulizia del viso

Alloro
Nome scientifico: Laurus Nobilis L.

Usi alimentari: le foglie, ricche di oli essenziali, sono ampiamente adoperate in cucina, sia fresche che secche, per aromatizzare numerose vivande: i fegatelli e le salsicce di maiale, gli arrosti, i sughi, le castagne lesse, le olive in salamoia ecc. Nel Grossetano si confeziona un formaggio aromatizzato con le foglie di alloro, di timo (Thymus vulgaris L.) e di borragine (Borago officinalis L.). In Garfagnana (Lucca), dei frutti, chiamati “aguri” veniva mangiata la parte esterna, poiché quella interna era ritenuta velenosa. Lo si impiegava anche durante la bollitura del latte per aggiungere aroma alle creme e alle panne.

 

Usi medicinali e cosmetici: molte sono le proprietà che la medicina popolare attribuisce a questa pianta: antiaerofagica, antidolorifica, antinfiammatoria, antipiretica, antisettica, digestiva, spasmolitica, stomachica, tonica ecc. Nella provincia di Pisa, ad Agnano, il decotto delle foglie viene fatto bere ai bambini in caso di acetonemia, mentre a Buti, il decotto dei frutti è usato in pediluvi contro l’eccessiva sudorazione; la polvere ricavata dalla triturazione delle drupe secche è somministrata oralmente ai bambini rachitici; a Calci, sempre in provincia di Pisa, si prepara il cosiddetto “stracotto”, ossia un decotto contro la tosse ottenuto con le foglie, unite ai fichi secchi, mele e prugne. Altro impiego caratteristico lo ritroviamo a Capezzano (Lucca), dove le foglie fresche e contuse sono applicate localmente sul seno in caso di mastite. In località Azzano (Lucca), il decotto delle foglie viene somministrato al bestiame dopo il parto come depurativo intestinale. In Garfagnana (Lucca), il decotto delle foglie è adoperato per riflessare i capelli scuri, risciacquandoli dopo il normale shampoo. Oggi le sue drupe pressate o distillate producono un olio apprezzato in liquoreria. Quando queste vengono raccolte in ottobre, novembre, contengono uno speciale olio utile per i disagi articolari e reumatici.

Altri usi: il folto fogliame, con o senza le drupe nerastre, è adoperato per confezionare corone, mazzi di fiori freschi ed anche composizioni natalizie. Le foglie, in varie località della Toscana, ora sono adoperate per profumare la biancheria, un tempo per fare il bucato: in un’apposita conca di terracotta, forata sul fondo, veniva adagiata la grossa biancheria (lenzuola, coperte ecc.), poi su di questa un robusto telo di cotone detto “cenerone” ed infine uno strato di cenere e foglie di alloro. L’acqua saponata e tiepida, gettata sullo strato di cenere, e raccolta dal fondo,chiamata“lisciva”, veniva rimessa a scaldare sul fuoco e poi nuovamente riutilizzata. Il procedimento seguiva unametodica ben precisa e a Petrognano (Lucca) era riassunta nella seguente filastrocca: “tre tiepidi, trecaldi, tre fioriti ed infine tre bolliti”; l’ultima acqua recuperata, detta “ranno”, era usata comecandeggina per sbiancare la piccola biancheria. Fondamentale da bruciarenei bracieri durante lecerimonie.

B

Biancospino
Nome scientifico: Crataegus monogyna Jacq.

 

Usi alimentari: la parte edule è rappresentata principalmente da quelli che comunemente vengono chiamati “frutti”; in realtà si tratta di falsi frutti, in quanto derivano dalla trasformazione del ricettacolo fiorale e non del suo ovario. I “frutti” si utilizzano freschi, oppure in marmellate e gelatine,  ma possono anche essere essiccati e macinati per farne farine aromatiche; i fiori, ancora in boccio, vengono conservati sott’aceto ed usati come i capperi oppure possono essere consumati freschi. Il seme può essere tostato e ricorda il caffè. I giovani germogli hanno un gusto di nocciola, mentre le foglie possono essere essicate e sono simili, quanto ad aroma, ad un tè cinese.

Usi medicinali e cosmetici: l’infuso dei fiori (che si schiudono prima delle foglie all’inizio della primavera), dal sapore gradevolissimo (mentre da freschi sull’albero hanno un odore amaro conferito loro dalla trimetilammina che attira gli stessi insetti che si cibano di animali e piante in decomposizione), viene bevuto come euipnico per facilitare il sonno, come calmante per sedare lievi stati di nervosismo, come spasmolitico in caso di coliche gastrointestinali ed infine come blando tonico del cuore. Queste pratiche sono assai diffuse in Toscana ed anche sfruttate dalla medicina ufficiale. Nel Massese, l’infuso dei fiori viene assunto oralmente come depurativo, specialmente durante i cambi di stagione. Nelle province di Pisa e Livorno, l’infuso dei frutti viene bevuto come antidiarroico. Nel Senese il decotto dei fiori e delle foglie, miste alle sommità fiorite di   achillea (Achillea millefolium L.), alle foglie di vischio (Viscum album L.), a quelle di borsa del pastore (Capsella bursa-pastoris (L.) Medicus) di ortica (Urtica sp. pl.) e di olivo (Olea europaea L.), è somministrato per via orale come ipotensivo. Nel Grossetano l’infuso dei fiori è aggiunto all’acqua del bagno per esercitare sulla pelle un’azione lenitiva ed emolliente.

Altri usi:gli artigiani toscani sfruttavano il legno di questo arbusto per lavori al tornio; in particolare ne fabbricavano bastoni da passeggio e manici per utensili domestici. Nel Mugello (Firenze) e sul Monte Amiata, questa pianta era usata come porta-innesto per diversi alberi da frutto come il pero (Pyrus communis L.) e il nespolo (Eryobotrya japonica (Thunb.) Lindley).

Bosso
Nome scientifico: Buxus

Usi medicinali: nel Livornese, in caso di sciatalgia, le foglie sono impiegate in cataplasmi da applicare lungo le terminazioni del nervo sciatico. Nel Senese il decotto delle foglie viene bevuto nel trattamento di stati febbrili, come antipiretico.

Altri usi: in numerose località della Toscana il legno giallognolo e particolarmente duro di questa pianta è da sempre apprezzato per realizzare svariati utensili: viti, manici di scopa e di coltelli, mestoli, cucchiai, mazzuoli da botti ecc. In Garfagnana, i mazzetti di bosso sono usati per pulire dalla cenere i forni a legna. In alcuni paesi della Versilia, per ridurre il pericolo di mastite, con le fronde di questa pianta si prepara una lettiera su cui la mucca dovrà passare il periodo successivo al parto. A Montignoso (Massa), il decotto delle foglie è usato per frizionare il cuoio capelluto come tricostimolante. In Garfagnana, durante la Quaresima, la Settimana Santa o più semplicemente il giorno di Pasqua, è usanza tenere in tasca un rametto di bosso in segno beneaugurante. La stessa osservanza, in queste zone, è considerata un antidoto contro “gli streghi”; non è un caso che mazzetti di bosso vengano posti in casa in segno di benedizione, e che a Coreglia Antelminelli (Lucca), un enorme mazzo di bosso venga ancora oggi posto sul campanile della chiesa alla vigilia del giorno di San Michele, patrono del paese. Il bosso è stato sempre utilizzato per le bordure nei giardini, in quanto si tratta di una specie molto robusta, con un folto fogliame e con esigenze colturali minime; un tempo, con le recinzioni di bosso, si delimitavano le zone di riposo delle greggi.

C

Caprifoglio
Nome scientifico: Lonicera caprifolium

Usi alimentari: in Garfagnana (Lucca), i fiori vengono consumati come caramelle.

Usi medicinali: assieme al congenere L. periclymenum L. in alcune località dei Colli Pisani (Livorno, Pisa), viene ritenuto bechico in caso di tosse secca e stizzosa e mucolitico nelle forme catarrali. A tal fine si prepara il decotto dei fiori, da bere alla dose di tre tazze al giorno.

Castagno
Nome scientifico: Castanea sativa L.

 

Usi alimentari: i semi di questo albero hanno costituito per anni l’alimento principale di molte genti toscane, soprattutto quelle residenti sulle montagne; ancora oggi le castagne si consumano in vario modo, spesso rifacendosi ad antiche ricette locali; con la farina, ottenuta macinando le castagne secche, si preparano necci, farinata, polenta, castagnaccio, frittelle ecc.; le castagne fresche si possono invece arrostire, divenendo dolci “caldarroste” o ancora gustare come “ballotte”, dopo lessatura in acqua salata con l’aggiunta di qualche foglia di alloro (Laurus nobilis L.).

Usi medicinali e cosmetici: in Garfagnana (Lucca), il decotto della corteccia è usato in impacchi o in bagni per curare varie affezioni dermatologiche, e soprattutto le dermatiti di origine allergica. Nell’Arcipelago Toscano, i frutti cotti alla brace uniti a miele e succo di limone (Citrus limon (L.) Burm. fil.) forniscono un efficace preparato da ingerire in caso di dissenteria. Nel Massese, le foglie fresche e contuse sono applicate sulle piaghe per diminuirne l’essudazione e per stimolarne la cicatrizzazione. In Versilia la polvere prodotta dal legno di castagno ad opera dei tarli viene aspersa sulla cute del bambino in caso di irritazione da pannolino. Un’ultima nota interessante sul castagno si ritrova in Garfagnana, dove dai legni marcescenti di questi alberi si raccoglie la “muffa bianca”, ovvero il feltro miceliare di un fungo appartenente al genere Fomes, che si presenta proprio con questo caratteristico aspetto: lo si applica su ferite anche profonde come valido cicatrizzante ed antisettico. In Garfagnana, il decotto delle “bucce” di castagna con alcune foglie di alloro (Laurus nobilis L.) è adoperato per risciacquare i capelli scuri, al fine di ottenere delicati riflessi ramati. A Pruno e a Volegno (Lucca), per attenuare i dolori intercostali viene tenuto un rametto di castagno in bocca; a Popiglio (Pistoia), lo stesso procedimento è adottato contro il singhiozzo e per calmare i dolori di milza dovuti ad uno sforzo. In Garfagnana, intorno a questa pianta, si sono create numerose leggende che la identificano come spirito benigno e generoso, dimora dei “buffardelli”, folletti bizzarri e dispettosi. In Versilia, il carbone di castagno è usato in vario modo: per temprare l’acciaio e il ferro, per assorbire “l’acidità” della grappa fatta in casa e come costituente della polvere pirica. Sempre in questo territorio, il materiale ricavato dalla ripulitura dei vecchi castagni marcescenti, dialettalmente detto “tufone”, è usato come ottimo concime da giardinaggio. In Garfagnana, le foglie sono usate per tappezzare i cesti per la raccolta dei funghi; le stesse venivano raccolte in lunghe corone, ed usate all’occorrrenza per preparare i necci. Le ceneri del legno di castagno sono cosparse a doppio anello intorno ai fusti delle piante per tenere lontane le formiche.

Altri usi: i polloni vengono riscaldati sul fuoco e successivamente tagliati a strisce sottili per realizzare cesti di varia fattezza ed in particolar modo i cosiddetti ”corbelli”. Nel Mugello (Firenze), gli epicarpi dei frutti, ossia le “bucce”, uniti alle foglie sono usati nella preparazione di un decotto assai denso, che una volta filtrato è adoperato per colorare di bruno le stoffe; lo stesso preparato è altresì usato come mordente per scurire il legno.

Ciliegio selvatico
Nome scientifico: Prunus avium L.

 

Usi alimentari: i frutti sono comunemente consumati in vario modo: freschi, in marmellate, gelatine, sciroppi, sotto spirito ecc. A Fabbiano e in località La Cappella (Lucca) con i frutti ben maturi si prepara un caratteristico liquore, mentre a Mulina, sempre in provincia di Lucca, dopo macerazione in alcool etilico, se ne ottiene una grappa.

Usi medicinali: la medicina popolare utilizza il decotto preparato con i peduncoli dei frutti, da bersi come diuretico ed antinfiammatorio, proprietà riconosciute anche dalla fitoterapia ufficiale. Un uso interessante si riscontra a Pomezzana, in provincia di Lucca, dove si prepara un enolito contro il raffreddore: un pugno di foglie viene messo a macerare per venti giorni in un litro di vino, dopodiché si filtra e si assumono due cucchiai al giorno del preparato così ottenuto. In Garfagnana (Lucca), il decotto dei peduncoli viene bevuto in caso di tosse e bronchite, mentre a Massaciuccoli (Lucca) lo si ritiene valido depurativo. un uso originale è emerso a Cardoso (Lucca): le foglie vengono date da mangiare alle vacche prima della “monta” per favorire la gravidanza.

Altri usi: a primavera, i rami portanti i candidi fiori vengono raccolti ed utilizzati per confezionare mazzi di fiori freschi. Il legno è molto apprezzato per la preparazione di panche e tavoli rustici.

Cipresso
Nome scientifico: Cupressus

Usi alimentari: può essere utilizzato come spezia ,a piccole dosi , per insaporire ricette di frittate, paste fresche o prodotti lievitati come focacce, pane, grissini. Un tocco di cipresso è anche utile per dare carattere a dolci come budini, torte, sorbetti e biscotti. Ottimo infine per aromatizzare il sale, magari unito ad altre gustose spezie.

Usi medicinali: in Alta Val di Lima (Pistoia), le “coccole” verdi, contuse e unite alla corteccia di sambuco (Sambucus nigra L.) vengono cotte in olio d’oliva e cera d’api; dopo filtrazione, tale unguento è adoperato in massaggi antidolorifici. Ad Antona (Massa), il macerato acquoso dei galbuli è usato in collutorio contro il mal di denti. A San Gennaro (Lucca), il decotto dei galbuli misti alle foglie di ortica (Urtica dioica L.) e alle cime di rovo (Rubus fruticosus L.) è usato come antiemorroidario. Sul Monte Pisano, il decotto dei soli galbuli è usato in bagni rinforzanti per gli arti dei bambini che si apprestano a compiere i primi passi; a Cetona e Sarteano (Siena), lo stesso preparato viene bevuto come astringente intestinale in caso di diarrea.

Ultri usi: nel Livornese, la corteccia , una volta “ammollata” in acqua , viene fissata mediante una garza agli arti dei cavalli affetti da dolori reumatici. Sempre in queste zone, le “coccole” immature vengono fatte ingerire agli animali che presentano disturbi gastrointestinali. Sui Monti Pisani (Pisa), rametti e galbuli verdi vengono fatti mangiare ai conigli affetti dalla cosiddetta “ventrina”, ossia gonfiore del ventre, spesso determinato dall’ingestione di fieno fresco fermentato. A Montecatini Val di Cecina (Pisa) per curare l’eccessiva sudorazione, nei cavalli e bovini, si eseguono spugnature con un preparato ottenuto cuocendo le “coccole” immature nell’aceto; successivamente, la cute viene trattata con farina di grano tenero (Triticum aestivum L.), usata come polvere aspersoria ad azione assorbente. A Badia di Cantignano (Lucca), il decotto dei galbuli immaturi viene usato per lavare i capelli

Convolvolo
Nome scientifico: Convolvulus arvensis

Usi medicinali: l’unico uso ad oggi noto si riscontra per il Pisano; nel paese di Asciano, il decotto di foglie e fiori viene bevuto come lassativo. Nei vicini centri di Calci e a San Giuliano Terme, si usa allo stesso modo e col medesimo fine terapeutico il convolvolo bianco (Calystegia sepium (L.) R. Br.

E

Edera
Nome scientifico: Hedera helix L.

Usi medicinali e cosmetici: svariate sono le proprietà terapeutiche attribuite a questa pianta: antiasmatica, antidolorifica, antinevralgica, antinfiammatoria, antitussiva, cheratolitica, cicatrizzante, depurativa, vasotonica, ecc. Molto comune è la pratica di adoperare le foglie fresche e contuse in applicazioni locali su bruciature, piaghe, foruncoli ed altre affezioni dermatologiche. Tra gli usi più originali ricordiamo quella delle popolazioni del Senese, che utilizzano il decotto delle foglie e dei rametti, misti a quelli di rosmarino (Rosmarinus officinalis L.), come antitumorale, somministrato oralmente. Sempre in questi luoghi il decotto delle foglie nel latte è considerato ottimo rimedio contro i calcoli biliari. In Val d’Orcia (Siena) con le foglie bollite in acqua con il sale e con il “bulicame”, ossia il nido delle vespe , meglio se contenente l’insetto o le larve, si ottiene una sorta di pomata da utilizzare localmente sugli eczemi. A Lappato (Lucca) l’oleolito, ottenuto mettendo a “sfriggere” le foglie in olio d’oliva, è usato come vulnerario su piaghe e vesciche, mentre in altre località della Lucchesia si impiega in frizioni e massaggi antidolorifici. Il decotto delle foglie viene usato per risciacquare i capelli, al fine di renderli più morbidi (effetto balsamo) e al tempo stesso per scurirli; è altresì adoperato in impacchi locali anticellulite. Nell’Arcipelago Toscano e in alcune aree della provincia di Grosseto, il decotto delle foglie è adoperato per frizionare il cuoio capelluto per stimolare la crescita dei capelli. I contadini mettevano delle foglie nelle scarpe per defaticare i piedi. Secondo una credenza popolare l’edera migliore, da un punto di vista terapeutico, è quella che cresce all’ombra. Si tratta di pianta potenzialmente tossica.

Altri usi: in Versilia (Lucca), il decotto delle foglie era utilizzato, fino a qualche decennio fa, per ravvivare il colore dei panni scuri, spesso aggiungendo anche foglie di noce (Juglans regia L.). A Pruno e a Cardoso (Lucca), le foglie sono considerate un potente abortivo per pecore e capre anche se la gravidanza è già al terzo mese. Nel Senese, il decotto delle foglie era considerato un ottimo antinfiammatorio da utilizzarsi in irrigazioni ai genitali delle mucche; era altresì impiegato nella prevenzione di certe malattie infiammatorie che potevano indurre sterilità nell’animale.

Elleboro
Nome scientifico: Helleborus foetidus L.; Helleborus odorus W. et K.

Usi medicinali: in Val d’Orcia (Siena) e sul Monte Amiata (Grosseto), i semi venivano usati come analgesico, in caso di odontalgie, mettendo un seme direttamente nella cavità dentale; il dolore passava quasi immediatamente, ma il dente in pochi giorni si spezzava.

Altri usi: in Versilia e sui Monti Pisani, la radice di entrambe le specie di elleboro è inserita in un’incisione praticata nella coda di mucche e pecore per svolgere azione antipiretica, mentre in Garfagnana la stessa pratica si adotta per curare i maiali affetti dal “mal rossino” malattia batterica causata da Erysipelothrix rhusiopathiae. La radice viene anche inserita nell’orecchio degli agnelli per risolvere il cosiddetto “capo matto”, ossia crisi epilettiche dovute forse ad un edema intracranico. Nel Capannorese (Lucca) le foglie fresche e contuse sono applicate localmente per risolvere la cosiddetta “incollatura”, ovvero tumefazione purulenta del collo dei bovini nel punto di contatto col giogo; è buona norma prima di apporre il preparato, incidere la cute per consentire la fuoriuscita del pus. In Garfagnana, il decotto della radice è impiegato per fare lavaggi antisettici agli animali appena nati. Alcune varietà di ellebori sono coltivate come piante ornamentali. Si tratta di piante tossiche in tutte le loro parti

L’efemero nero (helleborum niger) è attualmente usato come rimedio omeopatico. L’efemero bianco (veratrum album) è attualmente usato come rimedio omeopatico.

Erica
Nome scientifico: Erica scoparia L.

Usi medicinali: in Garfagnana (Lucca) l’infuso ottenuto dai fiori viene assunto oralmente per disintossicare l’organismo, specialmente durante il cambio di stagione; si utilizza altresì come diuretico; nel Grossetano, trova impiego come antisettico delle vie urinarie. In località Fornaci di Barga, nella Media Valle del Serchio (Lucca), il decotto dei rametti della specie E. carnea L. viene bevuto per eliminare i piccoli calcoli renali.

Altri usi: i rami di questa pianta vengono usati per fabbricare le scope, legandoli in fascetti attorno ad un manico di legno. Svariati tipi di scope si producevano con l’erica, da quelle per cortile a quelle utilizzate dai netturbini. Si impiega altresì la specie affine E. arborea L. In molte località della Toscana è tradizione assai antica tenere dietro il portone di casa una scopa fatta di erica, per allontanare le streghe; si dice, infatti, che queste non possano entrare fino a che non abbiano contato il numero esatto dei rami che compongono la scopa.

F

Farinaccio
Nome scientifico: Chenopodium album L.

Usi alimentari: le foglie, o le estremità apicali dei giovani getti, vengono lessate e condite a guisa di spinaci, oppure “ripassate” in padella con olio d’oliva ed aglio. Si usano anche in mescolanze con tarassaco (Taraxacum officinale Weber), radicchio selvatico (Cichorium intybus L.), borragine (Borago officinalis L.), ortica (Urtica sp. pl.), salvastrella (Sanguisorba minor Scop.) ecc. In Maremma lo spinacio selvatico è assai adoperato per il ripieno delle torte salate, nonché nelle zuppe. Sull’Appennino tosco-emiliano si usa anche la specie affine C. bonus-henricus L.

Usi medicinali: il congenere C. bonus-henricus L. viene usato sia in Garfagnana (Lucca), sia in Alta Val di Lima (Pistoia): l’acqua di cottura delle foglie viene bevuta per regolarizzare le funzioni intestinali, così come si mangiano le foglie lessate e scondite; si utilizza altresì come rimineralizzante, specialmente di sali di ferro.

Fico
Nome scientifico: Ficus carica L

 

Usi alimentari: i frutti, molto apprezzati, sono consumati in vario modo: seccati, freschi, in macedonie, in marmellate, in gelatine, in torte casalinghe ecc.

Usi medicinali: il latice biancastro, che geme dai frutti immaturi o dal picciolo delle foglie recise, viene ampiamente adoperato, su tutto il territorio toscano, come cheratolitico in toccature locali su porri e verruche fino alla loro completa eliminazione. A Castagnola e in località La Quercia, nel Massese, sempre a scopo caustico il latice viene applicato sui porri e per facilitarne il distacco, ognuno di questi viene legato alla base con un capello. Assai impiegato è il decotto dei frutti secchi che viene bevuto più volte al giorno come bechico in caso di tosse stizzosa; Nel Massese per aumentare l’attivita antitussiva del decotto si aggiungono le castagne secche (Castanea sativa Miller). A Guasticce e a Vicarello (Livorno) il lattice viene applicato sulle punture d’insetto per lenirne il dolore ed il gonfiore.

Altri usi: nel Grossetano, le foglie vengono aggiunte in piccole quantità al foraggio per aumentare la produzione di latte delle mucche.

G

Genziana
Nome scientifico: Gentiana kochiana Perr. et Song

Usi medicinali: le attività maggiormente sfruttate di questa specie sono sicuramente quella depurativa e digestiva, proprietà strettamente legate alla presenza, nella radice, di principi attivi amari. Del tutto originale è invece l’uso emerso fra la popolazione garfagnina: il decotto o l’infuso della radice viene bevuto come antiipertensivo; sempre in queste zone il decotto della radice è ritenuto valido spasmolitico nelle coliche gastrointestinali. Altro interessate impiego è quello ritrovato in Versilia (Lucca), dove il macerato alcolico della radice, preso per una settimana alla dose di un cucchiaio la mattina a digiuno, è considerato ottimo antipiretico, soprattutto in caso di febbri intermittenti. A scopo eupeptico, aperitivo e depurativo si impiegano anche altre genziane (G. lutea L., G. Come per molte altre piante medicinali, anche per la genziana è credenza diffusa che la raccolta vada effettuata il giorno di San Giovanni, poiché la guazza che si deposita sulla pianta durante la notte ne potenzia gli effetti.

Gigaro
Nome scientifico: Arum italicum Miller

Usi medicinali e cosmetici: nell’Arcipelago Toscano e sui Monti Pisani, le foglie fresche e contuse, o il loro macerato oleoso, vengono applicate sui foruncoli per favorirne la maturazione; in Lucchesia distinguiamo vari usi: a Fagnano e a Vorno il decotto delle foglie è usato sia in suffumigi che in semicupi antiemorroidali; a Petrognano, a Sant’Andrea in Caprile e a Segromigno in Monte, foglie fresche vengono applicate sulla fronte come analgesico in caso di mal di testa. A Guamo (Lucca), con il rizoma essiccato e macinato si ricavava una cipria casalinga. Pianta tossica, specialmente per ingestione dei frutti.

Giusquiamo
Nome scientifico: Hyoscyamus albus L

Usi medicinali: l’impiego di questa specie è stato evidenziato soltanto nell’Arcipelago Toscano, come analgesico in caso di odontalgie; a tal fine si usa mettere un singolo seme direttamente nella cavità dentale. Si tratta di una pianta potenzialmente velenosa, poiché contiene alcaloidi come atropina, scopolamina e josciamina. In passato veniva adoperato in sigarette antiasmatiche e come analgesico, nelle nevralgie del trigemino, mediante applicazioni locali

Grano tenero
Nome scientifico:Triticum aestivum L.

 

Usi alimentari: il grano, da millenni, è la base alimentare della civiltà mediterranea

 

Usi medicinali e cosmetici: l’uso dell’impiastro, preparato mescolando farina di grano con acqua o latte, da applicare localmente sulle ferite infette o sui foruncoli per accelerarne la guarigione è una pratica assai comune in Toscana. Altrettanto frequente è l’impiego della crusca in cataplasmi da porre sul petto in caso di bronchite o addirittura polmonite. A Piteglio (Pistoia), “l’acqua di semola” è utilizzata in bagni rinfrescanti nella cura di svariate affezioni dermatologiche di tipo pruriginoso, oppure somministrata oralmente come sfiammante dell’apparato gastrointestinale e di quello genitourinario. Altri impieghi tipici li ritroviamo in Lunigiana (Massa): come antiemorroidario si usa il decotto di crusca in semicupi, mentre la mollica di pane bagnata nel latte è posta sulle punture d’insetto.

 

Altri usi: In Versilia (Lucca), per riattivare la ruminazione, specialmente dei bovini ed ovini, si prepara il cosiddetto “biasciotto”, ossia un impasto di crusca con aceto e sale da far mangiare alle bestie. Allo stesso scopo si usa il decotto di rosmarino (Rosmarinus officinalis L.) unito alla farina di grano. Sempre in Versilia, il decotto preparato con sommità di vetriola (Parietaria sp. pl.) e farina di grano è fatto bere prima del parto ai bovini come depurativo. Nel Mugello (Firenze), la farina è addizionata al mangime delle mucche al fine di intensificare la produzione del latte. In varie località dell’isola d’Elba, il decotto delle cariossidi è aggiunto all’acqua del bagno per migliorare la pulizia della pelle; col medesimo fine si preparano dei sacchetti di garza di cotone contenenti le cariossidi da gettare nell’acqua del bagno. La paglia del grano era ampiamente adoperata come materiale da intreccio per fabbricare tipici cesti, cappelli ed altri piccoli oggetti di uso domestico. Era altresì impiegata per impagliare le sedie; a tal fine, per facilitarne la lavorazione, veniva preventivamente “ammollata” in acqua

L

Laburno
Nome scientifico: Laburnum anagyroides Medicus

Usi medicinali: in Alta Val di Lima (Pistoia), il decotto della corteccia, privata della parte suberificata, era usato nel trattamento della febbre maltese, assunto oralmente alla dose di un cucchiaio al giorno e non di più, in relazione alla tossicità del rimedio. Questa specie viene coltivata nelle zone submontane per la generosa fioritura primaverile; taluni lo indirizzano ad habitus arbustivo, altri arboreo.

Lino
Nome scientifico:Linum usitatissimum L.

Usi medicinali e cosmetici: tra le pratiche più ricorrenti e diffuse troviamo l’uso dei semi in cataplasmi da applicare sul petto nella cura delle affezioni bronchiali, mentre in caso di stipsi si beve il decotto dei semi. Nel Capannorese (Lucca), i semi “ammollati” in acqua per un’intera notte forniscono un preparato che, somministrato oralmente, risulta capace di sfiammare l’apparato gastrointestinale e quello urinario. Nel Volterrano (Pisa), in Versilia e nel Capannorese (Lucca), contro il mal di denti si usa un impasto di acqua e farina di semi di lino da porre sulla parte dolorante. Originale è l’uso emerso sui Monti Pisani (Pisa), dove il decotto dei semi viene bevuto, dopo aver riposato una notte “al sereno”, come ipoglicemizzante; lo stesso preparato viene somministrato alle puerpere per favorire la montata lattea. Si utilizza anche L. bienne Miller. A Mulina (Lucca), il decotto dei semi era usato come fissativo, per mantenere la piega dei capelli.

Altri usi: a Montecatini Val di Cecina (Pisa), il decotto dei semi viene fatto bere, semi inclusi, a bovini e cavalli in caso di indigestione e stipsi. In Versilia, il decotto dei semi è considerato un ottimo sfiammante ed astringente intestinale, depurativo se somministrato dopo il parto. In Garfagnana, i semi insieme alle foglie di malva (Malva sylvestris L.) vengono dati da mangiare alle mucche per ripristinare la ruminazione. I semi vengono aggiunti al normale “becchime” degli uccelli, specialmente nella fase della muta, poiché favoriscono la crescita del nuovo piumaggio, migliorandone anche la lucentezza.

N

Nepetella
Nome scientifico: Calamintha nepeta

 

Usi alimentari: è una delle piante aromatiche più utilizzate in Toscana; la si vede inserita pressoché in tutti i piatti, dalle tradizionali zuppe, ai funghi sott’olio o in padella, dalle frittate alle svariate ricette di selvaggina ecc. Rametti di nepitella sono posti fra la frutta per ritardarne la maturazione e per tenere lontani i moscerini.

Usi medicinali e cosmetici: molto comune e diffusa è l’usanza di bere, a fine pasto, l’infuso delle foglie per favorire la digestione. Lo stesso preparato si ritiene che serva ad eliminare i vermi intestinali nei bambini. In Lucchesia l’infuso è considerato un ottimo rimedio contro l’aerofagia, mentre nel Livornese lo si ritiene valido spasmolitico gastrointestinale. Nell’Arcipelago Toscano il decotto delle foglie è usato come collutorio in caso di infiammazioni della bocca e della gola. In Garfagnana, il decotto delle foglie, miste a petali di rosa (Rosa sp. pl.), è usato dalle giovani donne per la pulizia del viso.

Noce
Nome scientifico: Juglans regia

Usi alimentari: i gherigli sono mangiati come tali, oppure usati per preparare dolci, croccanti o per insaporite insalate, salse ecc.

Usi medicinali e cosmetici: l’infuso delle foglie, nel Pistoiese, viene bevuto a scopo ipoglicemizzante, mentre il loro decotto, a seconda della località, ha una indicazione terapeutica diversa: in svariate località della Lucchesia e nell’Aretino viene bevuto come antidiarroico; nel Senese è adoperato in impacchi locali in caso di dermatiti ed arrossamento da pannolino nel bambino; nel Massese, in pediluvi per diminuire l’eccessiva sudorazione dei piedi; in Val di Serchio (Lucca) è impiegato in semicupi antiemorroidari; in Versilia (Lucca), in suffumigi per abbassare la febbre, oppure in bagni per irrobustire gli arti dei bambini che iniziano a camminare; un po’ ovunque è bevuto come digestivo e depurativo. Il decotto delle foglie o del mallo è adoperato piuttosto diffusamente per risciacquare i capelli, per renderli più scuri, soffici e lucenti; a Montieri (Grosseto), in particolare, si prepara un infuso con 25 malli di noci in 3 litri di acqua. A Castagnola, in provincia di Massa, il mallo veniva strusciato sui denti per pulirli, come dentifricio. I frutti ancora verdi ed immaturi vengono raccolti e messi a macerare in alcool etilico e zucchero, per preparare il noto liquore detto “nocino”. Nel Capannorese (Lucca), si dice che per ottenere un buon nocino bisogna raccogliere i frutti entro e non oltre il 20 di giugno.

Altri usi: il legno di noce è usato nella fabbricazione di mobili di particolare pregio. Nel Mugello (Firenze), le foglie fresche, poste in sacchettini di tela, sono messe negli armadi per profumare i vestiti e per allontanare le tarme. In passato, in varie località toscane, il mallo dei frutti era usato per tingere di scuro i tessuti. A Grosseto, ancor oggi, si usa il decotto per tingere di marrone la lana. In Versilia, il decotto delle foglie, miste a quelle di edera (Hedera helix L.), era utilizzato, fino a qualche decennio fa, per ravvivare il colore dei panni scuri. Usi magici: in molte zone del territorio toscano si pensa che dormire sotto una pianta di noce possa essere dannoso per la salute. A Levigliani (Lucca) è tradizione antica raccogliere il 10 di agosto una noce da conservare per tutto l’anno; questa, una volta bagnata con la saliva e posta sopra una scottatura, sarebbe in grado di portarla a rapida guarigione. In Garfagnana (Lucca), nell’immaginario collettivo di queste popolazioni, sotto l’ombra del noce si radunano gli “streghi”; a Sillano (Lucca) si dice: “chi va in un campo di noci viene stregato e portato in luoghi sconosciuti”; a Volterra (Pisa) i più superstiziosi non piantano noci perché si crede che quando il tronco diverrà grosso come il braccio di chi lo ha piantato, questi morirà.

O

Olivo
Nome scientifico: Olea europaea L.

 

Usi alimentari: le olive e l’olio prodotto dalla loro spremitura a freddo , come è noto, sono da tempi immemorabili elementi importanti nell’alimentazione delle popolazioni del bacino mediterraneo; le drupe si consumano in salamoia, sotto sale, sott’olio e nella preparazione di numerosissimi piatti.

Usi medicinali: il decotto delle foglie, somministrato oralmente, è assai sfruttato nella medicina popolare per la sua proprietà ipotensiva. L’olio d’oliva è tra i prodotti più utilizzati nella medicina popolare della regione; questi gli impieghi più comuni: su bruciature e ustioni si applica come lenitivo e cicatrizzante; stiepidito, viene instillato all’interno dell’orecchio come analgesico in caso di otalgia; la mattina a digiuno viene assunto a cucchiai come lassativo. Nei Colli Pisani, contro i calcoli biliari, si bevono uno o due cucchiai d’olio d’oliva emulsionato con del succo di limone (Citrus limon (L.) Burm. fil.). Nell’Arcipelago Toscano, infine, un bicchiere di olio viene bevuto per risolvere l’ubriachezza.

Altri usi: nel Pisano, e più precisamente a Montecatini Val di Cecina, il decotto delle foglie è fatto bere alle bestie (bovini, ovini, equini e suini) come generico antinfiammatorio e come depurativo. Usi cosmetici: l’olio era usato per nutrire la pelle secca e screpolata e per prevenire gli arrossamenti causati dal freddo. Pratica assai diffusa in Toscana è l’uso dell’olio d’oliva per verificare se una persona è sotto l’influsso negativo del malocchio: una goccia d’olio viene fatta cadere in una bacinella d’acqua e a seconda della forma che assume o se si “rompe” si ha il responso, positivo o negativo. In Garfagnana (Lucca), contro il malocchio si utilizza un amuleto detto “breo o brevetto” da appendere alle corna delle mucche; lo si realizza mettendo in un sacchettino di stoffa rossa alcuni rametti di finocchio selvatico (Foeniculum vulgare Miller), foglie di olivo benedetto e sale da cucina. Sempre in questi luoghi, era usanza, dopo aver ricevuto una grazia, bruciare fuori della propria abitazione alcuni rami di olivo benedetto. In Toscana l’olio d’oliva costituisce, insieme la cera d’api, al sego (grasso del bue), alla sugna e al lardo (grasso del maiale), l’eccipiente lipofilo maggiormente adoperato nella preparazione di unguenti e pomate.

Breve storia dell’olio:

 

Secondo Fenestella e Plinio il Vecchio la coltura dell’olivo sarebbe stata introdotta da Tarquinio Prisco proveniente dall’Etruria, ma figlio del greco Demerato. Nel caso dell’olivo e dell’olio non manca la documentazione archeologica, paleobotanica ed epigrafica.

Fino a tutto il VII sec a.C. l’olio fu importato dalla Grecia per quattro scopi principali e stivato in contenitori diversi a secondo dei vari usi: alimentare, ginnico, di illuminazione, estetico.

Nell’alimentazione l’olio era impiegato sporadicamente (dovevano trovare un consumo più largo i grassi animali), mentre più diffuso era il consumo di olive.

Solo a partire dal terzo quarto del VII sec.a.C in Etruria si comincia a produrre olio. Le conoscenze tecniche sulla coltivazione dell’olivo furono probabilmente acquisite dalla Magna Grecia regione dove già da tempo era praticata.

Olmo
Nome scientifico: Ulmus minor Miller

 

Usi alimentari: i frutti, in botanica “samare”, vengono raccolti ancora immaturi e verdi, e consumati in piccole quantità nelle insalate alle quali conferiscono aroma e sapidità.

Usi medicinali: il decotto della corteccia viene utilizzato in svariati modi a seconda della zona considerata: nel Grossetano, per migliorare l’acuità visiva se ne instillano nell’occhio alcune gocce; nel Pisano, contro i geloni si usa in impacchi locali; nel Pistoiese e in Lucchesia per rinforzare gli arti dei bambini, che si apprestano a compiere i primi passi, si usa in bagni tonificanti mentre per combattere il mal di gola si adopera in gargarismi. Nel Grossetano gli umori ricavati dalle “galle” si applicano sulle ferite per stimolarne la cicatrizzazione.

Altri usi: fino a pochi decenni or sono, questa specie era assai ricercata ed utilizzata in Toscana per la fabbricazione delle forche da fieno, a due o più corni. A tal fine i rami delle giovani piante venivano opportunamente legati per modellarne la crescita, impartendogli la forma desiderata: dopo circa un anno di vegetazione la pianta era pronta per essere tagliata e per semplice decorticazione si otteneva l’utensile desiderato. L’olmo veniva coltivato e sfruttato come tutore delle piante di vite (Vitis vinifera L.). Le fronde erano usate, quando scarseggiava il fieno, come alimento per il bestiame.

Orniello
Nome scientifico: Fraxinus ornus L.

Usi medicinali: il decotto delle foglie viene bevuto, un po’ in tutto il territorio toscano, come diuretico ed antinfiammatorio. Tra gli impieghi più caratteristici ricordiamo che nei Monti Pisani (Lucca), il macerato acquoso della corteccia è fatto bere ai bambini affetti da acetone. Nel Senese il decotto delle foglie viene bevuto contro i dolori reumatici.

Altri usi: il legno di questa pianta, opportunamente lavorato, è usato per realizzare particolari ceste dette “corbette”. In Lucchesia e nel Livornese la soluzione ottenuta “ammollando” in acqua per un’intera notte la corteccia, talora mista a quella di sambuco (Sambucus nigra L.), è fatta bere agli animali (capre, cavalli, polli ecc.) affetti da diarrea e infiammazioni intestinali; il macerato acquoso è altresì adoperato in Garfagnana (Lucca) per la cura e la prevenzione del cosiddetto “calcinaccio” dei polli, una fecalosi di eziologia spesso batterica. Sempre in Garfagnana le foglie fresche vengono date da mangiare alle mucche per riattivare la ruminazione. Nel Senese la corteccia si pone negli abbeveratoi dei pollai per prevenire le malattie infettive. In Versilia (Lucca) per riattivare la ruminazione si usa la pratica del “romico”, che consiste nel fissare, mediante una particolare museruola, alcuni rametti tra le mandibole della bestia. A Montecatini Val di Cecina (Pisa), il macerato acquoso delle foglie è dato da bere ai polli raffreddati. Infine nel Grossetano come disinfettante intestinale si usa la linfa, raccolta dalle incisioni praticate a fine giugno sul tronco (manna), ed aggiunta al pastone dei polli

P

Papavero
Nome scientifico: Papaver rhoeas L.

 

Usi alimentari: in tutta la regione Toscana è pratica assai comune raccogliere la rosetta basale a fine inverno e per tutta la primavera a scopo alimentare. Le foglie vengono consumate crude in insalata o cotte, normalmente in mescolanze con altre “erbe” di campo, come la cicerbita (Sonchus oleraceus L.), il tarassaco (Taraxacum officinale Weber), la cascellora (Bunias erucago L.), il radicchio selvatico (Cichorium intybus L.), l’insalatina di monte (Reichardia picroides (L.) Roth), l’insalatina selvatica (Crepis leontodontoides All.) e tante altre consimili. In alcune zone del Fiorentino e dell’Aretino le rosette basali vengono cotte mettendole sotto il sale grosso e successivamente lavandole in acqua. In Maremma, si preparano dei tipici tortelli ripieni di ricotta con le foglie di papavero, quelle di bietola selvatica (Beta vulgaris L.) e le cime di ortica (Urtica dioica L.), mentre in Lunigiana (Massa) servono per preparare le torte salate. Le foglie sono normalmente presenti nelle zuppe e nei minestroni di verdure. I semi vengono talora posti sopra il pane a fine cottura per aromatizzarlo.

Usi medicinali e cosmetici: un po’ in tutta la regione il decotto delle capsule immature o l’infuso dei petali viene bevuto per facilitare il sonno e per sedare l’irrequietezza, soprattutto quella dei bambini. Sempre il decotto, oppure lo sciroppo dei petali, è consigliato contro la tosse secca e stizzosa. Usi veterinari: nelle campagne toscane, le rosette basali sono date da mangiare ai conigli, ai tacchini, ai polli e alle anatre, poiché si ritiene che siano un alimento ricostituente, capace di stimolare la loro crescita e la robustezza. In Val d’Orcia (Siena) foglie di papavero vengono date da mangiare agli animali a fine lassativo. I petali, in tempi passati, erano usati dalle giovani donne per dare colore alle guance e alle labbra; da qui il termine dialettale di “pittadonne”.

Altri usi: nel Grossetano dai petali freschi si ricava un colorante usato nel periodo Paquale per tingere di rosso le uova benedette; si usa altresì per tingere le stoffe.

Pino
Nome scientifico: Pinus pinaster (pino marittimo); Pinus pinea (pino domestico)

Usi alimentari: i semi della specie affine P. pinea L., detti pinoli, sono eduli e consumati in vario modo: mangiati come tali, usati per preparare dolci, croccanti o per insaporire salse, insalate ed altri piatti consimili. La bianca corteccia interna essiccata e macinata viene usata per ottenere una farina speciale fortemente nutriente.

Usi medicinali: tra le proprietà maggiormente sfruttate dalle genti toscane troviamo quelle balsamica, antinfiammatoria ed espettorante, attività peraltro riconosciute anche dalla medicina ufficiale e collegate alla presenza di olio essenziale. Un impiego particolare è emerso in Lucchesia e nel Livornese, dove la resina viene riscaldata insieme ad olio d’oliva o a sugna, ed usata in frizioni locali o in cerotti antireumatici. Nell’Arcipelago Toscano, il decotto delle foglie è usato in semicupi antiemorroidari; sui Monti Pisani, la resina mescolata al grasso di maiale viene applicata sulle articolazioni in caso di “versamento”. Per tali pratiche si usano anche P. halepensis Miller, P. pinea L. e più raramente P. nigra Arnold e P. sylvestris L.; ovviamente la scelta è in relazione ai luoghi dove queste specie vivono.

Altri usi: nel Livornese la resina unita a olio d’oliva o sugna viene scaldata a bagnomaria ed applicata localmente sulle piaghe infette degli animali. Nel Senese, il macerato acetico delle gemme è usato per fare lavaggi agli zoccoli di cavalli e asini che presentano infezioni. Le “pigne” secche sono comunemente utilizzate per facilitare l’accensione del fuoco, soprattutto qualora lo si utilizzi per cuocere la carne, a cui conferiscono un gradevole aroma.

Pruno damasceno
Nome scientifico: Prunus domestica L.

 

Usi alimentari: i frutti, che da un punto di vista botanico sono delle drupe, sono consumati freschi, secchi, in macedonie, in marmellate, in sciroppi, in torte casalinghe ecc.

Usi medicinali: in caso di stipsi, è una pratica molto comune mangiare le prugne secche cotte nell’acqua e berne il decotto, che si ritiene anche valido depurativo. Un particolare uso si riscontra all’isola del Giglio, dove si usano a tal fine le “grugnole”, ossia i frutti non giunti a maturazione perché affetti da moniliosi; si ritiene che queste siano più efficaci delle normali drupe. Sui Monti Pisani, il decotto delle prugne, unite a mele (Malus domestica Borkh.) e a fichi (Ficus carica L.), è bevuto in caso di tosse stizzosa; a Calci (Pisa), in particolare, come antitussivo si prepara il cosiddetto “stracotto”, ossia un decotto preparato con prugne, foglie di alloro (Laurus nobilis L.), “buccia” di limone (Citrus limon (L.) Burm. fil.), fichi secchi (Ficus carica L.) e mele (Malus domestica Borkh.).

R

Ranuncolo
Nome scientifico: Ranunculus ficaria L.

Usi alimentari: le foglie giovani vengono consumate fresche nelle insalate, assieme a tante altre entità selvatiche: ombrellini di prato (Tordylium apulum L.), tarassaco (Taraxacum officinale Weber), radicchio selvatico (Cichorium intybus L.), insalatina di monte (Reichardia picroides (L.) Roth), cicerbite (Sonchus oleraceus L.), dolcetta (Valerianella sp. pl.), strigoli (Silene vulgaris (Moench) Garcke) e qualche fogliolina di salvastrella (Sanguisorba minor Scop.). Le foglie sono altresì consumate cotte e condite con olio d’oliva e limone, oppure vengono inserite in alcune zuppe regionali (“zuppa di magro”, “cucina” ecc.). In tutta la Lucchesia, le foglie si usano per preparare le frittate, mentre a Camaiore è usanza diffusa quella di cucinarle assieme ai fagioli. Le radici tuberizzate vengono lessate e consumate a guisa di asparagi e nei periodi di carestia venivano essiccate, macinate e con la “farina” ottenuta si preparava il pane.

Usi medicinali: le foglie fresche e contuse sono considerate un ottimo rimedio per risolvere ulcerazioni e ferite, nonché per cicatrizzare le ragadi al seno. In alcune località della Garfagnana (Lucca) il congenere R. acris L. è utilizzato come antinevralgico: otto o nove fiori vengono contusi ed applicati localmente sulle parti affette da dolori artrosici oppure, in caso di sciatica, lungo il nervo omonimo; il preparato va tolto alla prima sensazione di bruciore. Sulla parte trattata comparirà una evidente vescica, ben presto sostituita da una cicatrice scura; contemporaneamente il dolore sarà svanito. Questa specie contiene un glucoside irritante e potenzialmente tossico

Romice
Nome scientifico: Rumex crispus L. Famiglia:

 

 

Usi alimentari: le giovani foglie primaverili sono adoperate fresche nelle insalate, miste al tarassaco (Taraxacum officinale Weber), radicchio selvatico (Cichorium intybus L.), insalatina di monte (Reichardia picroides (L.) Roth), cicerbite (Sonchus oleraceus L.), dolcetta (Valerianella sp. pl.), strigoli (Silene vulgaris (Moench) Garcke) ecc. Si utilizzano altresì nelle zuppe, nei minestroni e nei miscugli di verdure lesse. A scopo alimentare si impiegano anche le specie affini R. acetosa L. e R. acetosella L.

Usi medicinali: le foglie fresche e contuse o scaldate previamente sotto la cenere si applicano su foruncoli, ferite infette, ascessi dentali e su altre affezioni dermatologiche (erisipela, dermatiti ecc.), poiché ritenute capaci di azioni antibatterica, cicatrizzante, risolvente e lenitiva. Sulle Alpi Apuane (Massa), sempre le foglie sono poste sulle distorsioni come antiedematoso, mentre nel Grossetano si applicano sulle articolazioni doloranti come antinevralgico. Nell’Arcipelago Toscano, l’infuso delle foglie viene bevuto come spasmolitico in caso di coliche gastrointestinali e come depurativo. Pratiche originali sono emerse a Cardoso (Lucca) dove il decotto della radice è somministrato oralmente per abbassare la pressione, mentre l’infuso delle foglie, a Levigliani (Lucca), è considerato un ottimo antidiarroico.

Altri usi: a Montecatini Val di Cecina (Pisa), i frutti sono aggiunti al pastone delle anatre, dei polli e delle oche, poiché ritenuti alimenti altamente nutrienti. Nel Pisano il decotto delle foglie viene fatto bere ai tacchini come antidiarroico.

Rovo
Nome scientifico: Rubus fruticosus L.

 

Usi alimentari: le more sono consumate in vario modo: mangiate fresche come tali, in macedonie, in marmellate, sciroppi, gelatine ecc. Nel Carrarese, i giovani polloni primaverili, chiamati “bistecche”, una volta privati della scorza vengono lessati e mangiati come gli asparagi, mentre nel Fiorentino vengono fritti, passandoli prima in una pastella, preparata con uova, latte, farina e sale. Nel Capannorese e in Versilia (Lucca), i giovani getti — raccolti in primavera e chiamati volgarmente “puntine” o “broccoli” o ancora “occhietti” — vengono “scottati” in acqua bollente e consumati in frittata; in località Tofori (Lucca), si prepara una tipica frittata aggiungendo anche i giovani getti di luppolo (Humulus lupulus L.) e di vitalba (Clematis vitalba L.). A Pomezzana (Lucca), i getti si utilizzano nelle zuppe e nei minestroni.

Usi medicinali e cosmetici: il decotto delle foglie è bevuto come antidiarroico, oppure usato in sciacqui sfiammanti del cavo oro-faringeo. Nel Senese si utilizza l’infuso dei rami in impacchi o in bagni antipruriginosi e lenitivi in presenza di esantemi. In svariate zone della Toscana, le foglie contuse o gli umori da queste ottenuti per spremitura, si applicano localmente sulle ferite per cicatrizzarle o sui foruncoli per stimolarne la maturazione. Nel Grossetano, le foglie fresche e contuse si applicano localmente per favorire l’espulsione di spine o di altri corpi estranei dalla cute. Ricordiamo infine che a San Gennaro (Lucca), il decotto dei giovani getti uniti ai galbuli di cipresso (Cupressus sempervirens L.) e alle foglie di ortica (Urtica dioica L.) è usato in semicupi come antiemorroidario. Usi cosmetici: il decotto delle foglie e dei germogli era usato, un tempo, per scurire i capelli.

Altri usi: sul Monte Amiata (Grosseto), fino a qualche decennio fa, i giovani sarmenti angolosi una volta recisi alla base e ripuliti dalle spine e dalle foglie venivano tagliati longitudinalmente e ridotti a lunghe strisce flessibili e resistenti alla trazione, dette “sorghe”, adatte per cuciture o suture di sostegno, per legare la saggina (Erica arborea L.) in scope e scopette ecc. Le foglie e i germogli erano usati per tingere di nero la lana e la seta.

S

Salice
Nome scientifico:SalixalbaL.Famiglia:Salicaceae

Usi medicinali: il decotto della corteccia è comunemente bevuto come antipiretico; in Garfagnana (Lucca) l’infuso delle foglie viene bevuto per aumentare la diuresi; sempre in provincia di Lucca, a Petrognano e a Lappato, il succo ricavato dalla triturazione delle foglie di S. viminalis L. è usato come caustico contro i porri. Dalla sua corteccia invecchiata di 2/3 anni si ottiene per infusione una sorta di aspirina, dal sapore molto amaro.

Altri usi: i giovani rami sono usati come materiale da intreccio per fabbricare cestini e oggetti consimili. Rami di salice si usano altresì per rivestire la base delle damigiane e dei fiaschi da vino; agli stessi scopi si usa anche S. viminalis L., che è anche adoperato per legare le viti (Vitis vinifera L.) ai tutori o pali di sostegno. Per riattivare la ruminazione si adottano metodiche diverse a seconda della località considerata: a Terrinca e a Levigliani (Lucca), agli ovini viene somministrato il decotto dei rami; a Montecatini Val di Cecina (Pisa), viene fatto bere ai bovini il decotto, preparato nel vino, della corteccia mista a frutti di finocchio selvatico (Foeniculum vulgare Miller); in Garfagnana (Lucca), si usano le foglie di S. viminalis L. semplicemente come alimento per ovini e bovini, oppure si adotta la pratica del “romico”, che consiste nel costringere l’animale alla masticazione di ramoscelli freschi con l’applicazione di una museruola di corda

Sambuco
Nome scientifico: Sambucus nigra L.

 

Usi alimentari: i fiori, o per meglio dire le infiorescenze corimbiformi, sono consumati fritti, immergendoli in una pastella preparata con farina ed acqua. I frutti possono essere mangiati crudi, in macedonie, ma più spesso sono impiegati nella preparazione di marmellate, gelatine e sciroppi. I fiori freschi erano usati, in passato, per aromatizzare i vini bianchi, cui conferivano un gradevole sapore di moscato.

Usi medicinali: molteplici sono le proprietà che la medicina popolare attribuisce a questa pianta: antiemetica, antiemorroidaria, antigottosa, antiipertensiva, antinfiammatoria, antiodontalgica, antiotalgica ecc. Tra gli usi più interessanti, ricordiamo quello antivirale sfruttato dalle popolazioni lucchesi, che applicano una pomata preparata dalla corteccia “sfritta” in olio d’oliva e cera d’api sulle parti colpite dal fuoco di Sant’Antonio (Herpes zoster). Altro impiego caratteristico lo ritroviamo nel Livornese, dove i fiori essiccati venivano mescolati all’impasto del pane per ottenere un preparato curativo delle “febbri intestinali”. Usi veterinari: a Pruno (Lucca), fino a pochi decenni fa, il decotto delle foglie era usato in suffumigi per sfiammare le mammelle delle mucche affette da mastite. In Garfagnana, le foglie vengono appese nei pollai, per allontanare i parassiti dei volatili; a tal fine si usa anche la specie affine S. ebulus L. A Montecatini Val di Cecina (Pisa), con la corteccia “cotta” nel lardo con l’aggiunta di cera d’api, si ottiene una pomata cicatrizzante. . All’isola d’Elba è tradizione raccogliere il sambuco, per fini curativi, il giorno dell’Ascensione.

Altri usi: il legno, grazie alla sua leggerezza, è ideale per realizzare rustici bastoni da passeggio. I rami svuotati del ricco midollo biancastro sono usati come cannelli da botte, mentre in Garfagnana (Lucca) si usano per fare canne per pipe, nonché soffietti a bocca per ravvivare il fuoco del caminetto. Il succo, ottenuto dalla spremitura dei frutti, veniva usato per aumentare l’intensità del colore dei vini neri e per colorare certi liquori. Il decotto delle foglie e della parte interna della corteccia è vaporizzato su oggetti e piante per allontanare gli insetti come cimici, formiche, cocciniglie ecc. In Garfagnana, i fiori sono mescolati alle mele per conservarle più a lungo. Nel Mugello (Firenze), le drupe spremute fornivano un ottimo inchiostro. Usi tintori: le drupe venivano adoperate per colorare di bruno-verdastro le stoffe.

Per le sue proprietà medicinali il sambuco veniva chiamato la "farmacia degli Dei". I medici Ippocrate, Dioscoride e Paracelso lo sapevano bene quando lo menzionavano nei loro scritti sottolineando l’utilità della pianta in ogni sua parte. A quei tempi, non c´era contadino che dinanzi a questo sacro arbusto non lo salutasse con riverenza, togliendosi il cappello. Per sette volte egli si inchinava, perché sette erano i suoi doni: - la sua resina, per placare il dolore delle lussazioni; - il decotto di radice per la gotta; - la sua corteccia come riequilibrante intestinale e per guarire dalle cistiti e dagli orzaioli; - le sue foglie curano la pelle e la cicatrizzano; - i suoi frutti curano le bronchiti ed i mali invernali; - l´infuso di fiori depura ed è diuretico; - dai germogli si ricava un potente decotto per calmare le nevralgie. Per secoli, accanto alla camomilla, è stato uno dei principali rimedi della medicina. Bisogna fare invece molta attenzione alle bacche, da raccogliere sempre mature. Questa pianta ci offre anche delle splendide tinture naturali: il nero dalla corteccia, il verde dalle foglie, il blu o lilla dai fiori e il rosso scuro dalle bacche, con cui si colorava il vino.

T

Taminia
Nome scientifico: Tamus communis L.

Usi medicinali: non è specie vegetale assai usata, ma degna di menzione vista l’originalità e l’estrema ristrettezza dell’area d’impiego; ad oggi, infatti, se ne documenta un uso solo nel Grossetano e in Versilia; nel primo caso con i tuberi si prepara un macerato alcolico da applicare con lieve massaggio sulle contusioni; in Versilia, invece, i frutti contusi e ridotti in poltiglia sono impiegati per eradicare porri, calli e verruche, mediante applicazioni locali e quotidiane

Tifa
Nome scientifico: Typha angustifolia L.

Usi alimentari: nel territorio di Massaciuccoli (Lucca) e in alcune zone della Lucchesia la radice viene lessata e consumata con olio ed aceto di vino bianco; è considerata un ottimo contorno da abbinare principalmente a piatti a base di pesce.

Altri usi: nella zona del padule di Bientina (Pisa) e in altre località palustri della Toscana, le foglie essiccate si intrecciano per rivestire fiaschi e damigiane oppure per riparare le sedie, per confezionare sottopentole ed altri manufatti di uso domestico, per legare le piante orticole ai sostegni, per fissare gli innesti agli alberi da frutta ecc.

Tiglio
Nome scientifico: Tilia cordata

Usi alimentari: si usano i fiori per aromatizzare le marmellate; le foglie giovani, mucillaginose, crude o cotte; i semi verdi (dalle stesse proprietà organolettiche del cacao): la linfa che sa di cetriolo.

Usi medicinali e cosmetici: tra gli impieghi più diffusi troviamo quello dell’infuso dei fiori, che si beve comunemente per facilitare il sonno, come calmante della tosse e come diaforetico. Queste proprietà terapeutiche sono riconosciute anche dalla fitoterapia ufficiale. Nel Grossetano sono emersi usi caratteristici, ancor oggi in auge: il decotto dei semi viene bevuto come astringente intestinale in caso di dissenteria, mentre quello dei giovani rami viene ritenuto valido antisettico delle vie urinarie in presenza di cistite. Un altro interessante impiego lo ritroviamo nell’Arcipelago Toscano: qui, infatti, l’infuso preparato aggiungendo ai fiori rametti di rosmarino (Rosmarinus officinalis L.), foglie di salvia (Salvia officinalis L.) e di menta (Mentha sp. pl.), miele e qualche goccia di limone (Citrus limon (L.) Burm. fil.) viene bevuto come energico ricostituente fisico e mentale. Sempre a scopo ricostituente, in Garfagnana (Lucca), si prepara un decotto misto con fiori, foglie e corteccia di tiglio, al quale si aggiunge un albume d’uovo; tale preparato viene assunto ogni mattina a digiuno. In Garfagnana (Lucca), l’infuso dei fiori è adoperato dalle donne in impacchi sulle mani arrossate e screpolate.

Trifoglio
Nome scientifico:Trifolium pratense L.

Usi alimentari: un tempo i bambini succhiavano i fiori come caramelle, dato il loro gradevolissimo sapore dolciastro. Usi medicinali: a Petrognano (Lucca), il decotto preparato con le parti aeree della pianta è bevuto alla dose di tre tazze al giorno per sedare le coliche gastrointestinali ed in generale in caso di “mal di pancia”.

V

Vite domestica
Nome scientifico: Vitis vinifera L.

 

Usi alimentari: numerosissime sono le ricette culinarie tipiche della cucina toscana, sia dolci che salate, che utilizzano i frutti freschi o secchi, nonché il vino e l’aceto.

Usi medicinali e cosmetici: un po’ ovunque, nella regione, il trattamento delle ferite vede l’impiego dell’aceto a scopo disinfettante, e l’applicazione locale delle foglie fresche e contuse a scopo emostatico. Nel Massese, in caso di emicrania, si utilizza l’aceto in impacchi a livello delle tempie e della fronte. Un impiego assai originale lo ritroviamo a Matraia Alta, piccolo centro pedemontano del Capannorese, in provincia di Lucca: un acino d’uva marcescente si applica sulla “febbre sorda” (Herpes labialis) per ottenere una rapida guarigione. Altra pratica, in uso fino ad un decennio fa in certi distretti del Pistoiese, era l’impiego del mosto per bagni tonificanti agli arti dei bambini che dovevano compiere i primi passi. Nell’Arcipelago Toscano (Livorno, Grosseto), l’uva fresca è considerata buon diuretico e depurativo con cui sostituire un pasto alla settimana nel periodo di cambiamento stagionale. In Lunigiana (Massa), le “lacrime di vite”, ossia il liquido che fuoriesce dai tralci potati in primavera, si utilizzano per schiarire le lentiggini.

Altri usi: in Lucchesia ancor oggi i pochi pastori rimasti preparano un impasto mescolando aceto ed argilla da applicare localmente sulle mammelle di pecore e mucche in caso di mastite. A Capriglia, a Cardoso e a Levigliani (Lucca), per riattivare la ruminazione di bovini ed ovini, si prepara il cosiddetto “biasciotto”, un impasto di crusca, aceto e sale da far ingurgitare alle bestie. A Montecatini Val di Cecina (Pisa) per curare l’eccessiva sudorazione, nei bovini e cavalli, si eseguono delle spugnature con un preparato ottenuto cuocendo i galbuli immaturi di cipresso (Cupressus sempervirens L.) nell’aceto; successivamente, la cute viene aspersa con farina di grano tenero (Triticum aestivum L.). In Val d’Orcia (Siena), per curare l’indigestione delle pecore, si eseguiva un particolare salasso: l’orecchio della bestia veniva inciso e percosso usando un tralcio di vite, cercando di far fuoriuscire più sangue possibile; tale pratica è oggi caduta in disuso.

Breve storia del vino:

 

Recentemente è stata proposta l’ipotesi che prima ancora della diffusione del vino miceneo-greco fosse prodotto sia in Etruria che nel Lazio meridionale un vino indigeno indicato dalla parola latina “temetum”. L’esistenza di un simile prodotto e di una ritualità ad esso connessa e precedente dunque l’introduzione dei riti simposiaci di origine greca potrebbe esssere confermata da alcuni reperti ceramici ovvero da due tipi di forme vascolari autoctone connesse con il vino: la capeduncola con ansa bifora e l’anforetta a spirale.

Gli Etruschi dunque pare che tolsero la vite dai boschi e la coltivarono col sistema della vite maritata all’albero. Dalla proto-viticoltura iniziale, svilupparono poi una forma di viticoltura autonoma, diventata poi parte marcante del paesaggio agricolo italiano per millenni, considerata anche una frontiera culturale.

Il contatto con i Fenici ed i Greci arricchirà poi anche la loro viticoltura e produzione vinicola, ma manterranno sempre una forte identità.

Nella storia della viticoltura italica si possono distinguere più fasi:

 

  • La fase della pre-domesticazione:


I nostri lontanissimi antenati, in epoca Preistorica, raccoglievano l’uva selvatica nei boschi, prendendo quello che la natura dona spontaneamente. Sono stati trovati resti di vinaccioli di vite in contesti antropici almeno dal Neolitico antico. Non è però escluso che avvenisse anche in epoche precedenti, si pensa almeno dal Paleolitico.

In questo periodo l’uomo raccoglieva il frutto selvatico, ma non sembra ci siano tracce di vinificazione.

La Toscana e l’alto Lazio sono le regioni italiane che hanno ancora oggi il maggior numero di esemplari di viti selvatiche, concentrati prevalentemente proprio nei boschi della Maremma affacciati sul litorale tirrenico. È ragionevole pensare che le viti selvatiche attuali siano diverse da quelle del passato per fenomeni di evolzione, ibridazione tra diversi tipi di vite selvatica, ibridazioni con le viti domestiche e rinselvatichimento delle viti domestiche.

  • Fase della Lambruscaia:


Si pensa che la prima forma di viticoltura nell’Italia centrale sia iniziata verso la fine del secondo millennio a.C., nell’Età del Bronzo. Siamo all’inizio di quel periodo che gli studiosi hanno chiamato fase della lambruscaia, una via di transizione fra la raccolta spontanea e una forma agricola vera e propria. Si tratta di una viticoltura embrionale, che ha portato alla prima para-domesticazione.

In questo periodo l’uomo da raccoglitore passivo divenne attivo: iniziò a prendersi cura delle viti selvatiche nei boschi, nei luoghi dove queste nascevano spontaneamente.

La cura e la protezione dai predatori rendeva la disponibilità dei frutti più costante e forse anche più abbondante. Non si escludono in questa fase delle prime selezioni, nella scelta di curare le viti più produttive o più gradevoli nel gusto o le più resistenti alle avversità.

Non sappiamo come le chiamassero gli Etruschi o, meglio (per questo periodo), le genti Villanoviane da cui si svilupperà la civiltà Etrusca dal IX sec. a.C.

Noi usiamo il termine “lambruscaia”, che deriva dalla parola “labrusca” che in Italia indica storicamente la vite selvatica. Lambruscaia identifica quindi gli assembramenti di viti selvatiche spontanee nei boschi. Infatti queste piante tendono a crescere, nei nostri boschi mediterranei, dove c’è più disponibilità d’acqua, ad esempio vicino ai torrenti.

In Toscana nei secoli passati si usava il termine “ave rusco” o “abrostine” per indicare il vino fatto ancora con uva selvatica.

La coltivazione delle lambruscaie nei boschi è un elemento primordiale caratteristico del paesaggio agricolo italiano. Le lambruscaie non spariranno mai del tutto, nonostante il passaggio a forme di viticoltura più evolute. Soprattutto nelle aree maremmane, i contadini le hanno usate ancora per secoli, fino almeno al XIX sec. (anche se in forma marginale).

Nella fase della lambruscaia, il vino prodotto era poco, abbastanza lontano dal gusto a cui siamo abituati oggi. Date le caratteristiche dell’uva selvatica, era molto probabilmente molto leggero, aspro e ricco di tannino. Ad esso erano affiancate altre bevande fermentate, come quelle ottenute dal corniolo, dal sorbo o altri frutti.

  • Fase Numana:


Ad un certo punto la vite venne portata fuori dal bosco. Non si sa se questo passaggio ad una coltivazione vera e propria sia stato razionale o è nato dall’osservazione di fatti casuali. Una delle ipotesi più accreditate in questo senso è quella detta “degli orti spontanei”. Secondo questa teoria

l’uomo iniziò a veder crescere le piante utili (in questo caso la vite) vicino al proprio insediamento, nei luoghi dove abbandonava i suoi rifiuti. In questi posti gli umani antichi lasciavano resti di cibo ed anche le proprie deiezioni. I semi, buttati o presenti nelle feci, germinavano e si sviluppavano molto facilmente in posti così ricchi di materiale organico ed umidità.

Dalla seconda metà dell’VIII secolo circa, in un modo o nell’altro la vite selvatica uscì dal bosco, venne portata ai suoi margini, presso gli insediamenti umani. Iniziò la strutturazione di una vera e propria viticoltura, una nuova fase chiamata dagli studiosi “Numana”.

In questa fase nacque la vera e propria viticoltura etrusca, imitando comunque la natura, nella forma di vite maritata all’albero. Il ciclo di lavoro del viticoltore divenne completo, comprendendo anche l’impianto della vigna ed il rinnovo alla fine della vita del vigneto. Non a caso si è scelto il nome di Numa Pompilio: è l’epoca della “normalizzazione” della viticoltura che, fra l’altro, dall’Etruria venne trasmessa anche alla nascente civiltà romana.

La coltivazione comportò inevitabilmente una pressione selettiva sempre più intensa. Si sceglievano di impiantare e propagare le viti migliori, quelle ermafrodite (ricordo che la vite selvatica invece è prevalentemente a sessi separati), quelle più produttive o le più precoci, quelle più resistenti alle intemperie o alle malattie, ecc. Si parla in questa fase di proto-domesticazione vera e propria.

In questo periodo arrivarono anche i primi vini d’importazione e le varietà di vite orientale, portate in Italia dai Greci e dagli stessi Etruschi. Queste vennero coltivate tal quali ma anche innestate ed incrociate (più o meno volontariamente) con le varietà locali. Iniziò quell’immenso processo di intricatissimi intrecci genetici che ha generato molte delle varietà attuali, che rappresenta la domesticazione vera e propria (che è ancora in corso da allora).

È probabile che risalga a questa fase anche il passaggio dalla parola antica temetum (che in origine poteva indicare anche diverse bevande fermentate, non solo quella fatta con l’uva) a quella di vinum, di derivazione greca. Quest’ultima diventerà la più usata nella lingua Etrusca e nel Latino, prima di giungere fino a noi.

  • Fase del paesaggio organizzato nelle campagne:


Dalla parte finale VII secolo avanti Cristo s’accentuò sempre più il distacco fra la vita urbana e quella delle campagne al servizio delle città-stato. Nacquero sempre più edifici rurali circondati da terre coltivate, vere e proprie fattorie dedite alla produzione di vino, olio, cereali, ecc. Le viti maritate, poste ai margini delle terre arate, erano ormai sottoposte a potature e a cure sempre più evolute, così come migliorò ancora la produzione del vino. Le tecniche e gli strumenti di lavoro si affinarono sempre più, grazie anche al sempre maggiore scambio culturale col mondo greco e fenicio.

La società Etrusca era ormai molto evoluta e la richiesta di vino divenne sempre più esigente. Si consumavano vini locali ed importati. Si richiedeva sempre più vino di differente qualità, con una grande circolazione di varietà di diversa derivazione. La produzione sempre più consistente portò al commercio oltremare, diretto soprattutto verso i Celti del Sud della Francia.

La produzione locale di vino si avvale in questo periodo delle grandi masse di servi (anche dal mercato degli schiavi di Delo). In questo periodo cominciano inoltre ad apparire i tipici servizi da simposio etruschi realizzati in bucchero.

Dionigi di Alicarnasso, Livio, Ateneo e Plino il Vecchio ricordano l’importanza del vino etrusco.